Carletto Romeo
“Vestire gli ignudi” Recensione di Barbara Di Fabio
Mia opinione non richiesta su ‘Vestire gli ignudi’ – Regia di Bernardo Migliaccio Spina
‘Vestire gli ignudi’ è un precetto del Vangelo, una delle sette Opere di Misericordia Corporale, che rappresenta, fuor di metafora, la cura del corpo dell’altro, tutelandone il pudore, come meccanismo di difesa dagli sguardi che trasformano la persona in un oggetto.
‘Vestire gli ignudi’ è l’opera di Luigi Pirandello, messa in scena ieri sera in una rivisitazione curata dal regista Bernardo Migliaccio Spina, dagli attori della Scuola Cinematografica della Calabria.
‘Vestire gli ignudi’ significa anche che gli ignudi da vestire potremmo essere noi stessi. Che la nudità è ciò che toglie dignità e identità. In un’epoca in cui tutti, o quasi, sono esagitati venditori di loro stessi e di un’immagine proposta, cucita, rappresentata, “a favore di camera”, di social, per costruire un’immagine di sé – come vorremmo che fosse- vivono, con grande attualità, le tematiche essenziali attorno a cui si sviluppa la tragedia umana di Ersilia, protagonista interpretata da Carlotta Ndoye, giovane che, sopravvivendo a un tentativo di suicidio, decide di ‘vestire’ sé stessa di un abito che non le appartiene, raccontando una verità più accattivante e romantica di sé. ‘Vestire gli ignudi’ è la storia di un’anima che si sente inadeguata nella sua fragilità; la stessa fragilità che la fa camminare su una fune sospesa nel vuoto, tra l’istinto di suicidio e l’esaltazione di un protagonismo malato, teso, in maniera desolata, a vestirsi di un “abitino” decente. Rotelle dentate, più o meno consapevoli, ma inesorabilmente schiaccianti, del meccanismo perverso in cui la protagonista si trova, sono i due uomini tra cui è divisa: l’ex fidanzato, tenente di Vascello La Spiga, interpretato da Mario Alfonso Altavilla, e Il Console, Antonio Oppedisano, entrambi con particolare arte e capacità di dominare la scena.
L’allestimento teatrale che vede il dipanarsi di questa vicenda, cala l’ingrovigliata situazione in una stazione della metropolitana di periferia suburbana, tratteggiando caratteri estremi, in alcuni casi grotteschi, che assurgono ad archetipi narrativi. Secondo un meccanismo di esasperazione dei tratti caratteriali, degli abiti, del trucco, i personaggi diventano così portatori di messaggi importanti, potenti e attualissimi.
La voce incolore e metallica di avvertenza di ‘non oltrepassare la linea gialla’ che preannuncia l’arrivo del treno, ad esempio, precede e apre il varco ad un intimo approfondimento di una verità che viene dall’anima; quella che non ha bisogno di abiti o travestimenti di sorta.
Altro espediente narrativo -e quasi lirico- le incursioni barcollanti del mendicante Enrico che racconta ‘la verità’; ruolo impersonato da Bruno Barbaro, che rende, con un tono graffiante della voce, una minuziosa gestualità delle mani e mimica facciale che consiglio di ammirare dalle prime file, l’idea che è l’unico che può dire che il re è nudo, e da cui si è disposti ad ascoltare non solo la verità, ma anche “indubbie insolenze”; cosa che viene perdonata solo ai folli.
Il tessuto della storia rivela la volontà di celebrazione dell’antieroicità e la narrazione resa da regista e attori, ne fornisce una materia volutamente contraddittoria, come contraddittoria e antieroica è la nudità delle nostre esistenze.
Bernardo Migliaccio Spina, artista, ma prima ancora essere umano, silente, schivo, capace di abissi di profondità, regista visionario, dalla sua prospettiva onirica dell’arte, ne è indubbiamente un sabotatore. Prende un classico, e lo ‘sporca’ di realtà, in allestimenti che restituiscono –per contrasto- momenti di lirismo, nati come fiori dal cemento. Identica operazione, di felicissima riuscita, fu portata avanti col progetto della rappresentazione de L’Edipo Re di Sofocle, ambientato in un campo Rom e recitata in uno slang tra il calabrese e il sinti.
‘Vestire gli ignudi’ realizza, quindi, efficacemente la caratteristica principale che deve avere l’Arte: porsi, e porre, delle domande, in questo caso inducendo a riflettere sulla propria identità, sulla percezione che si ha di sé stessi e su quella che gli altri hanno di noi e su quanto questa discrasia ci metta in crisi.
Indubbiamente si tratta di un allestimento teatrale che alza l’asticella della qualità, in un panorama artistico locale di non eccessivo pregio, di una comprensione che richiede attenzione e notevoli capacità critiche. Ma la presenza di un limite pone spesso nella prospettiva di avere un obiettivo di crescita personale da raggiungere e magari superare, per migliorarsi.
Insomma, per chi vuol coglierlo, ‘Vestire gli ignudi’ è un incoraggiamento a ‘superare la linea gialla’.
Barbara Di Fabio
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