“Trump proclama il Liberation Day” di Gaetano Riggio

"Trump proclama il Liberation Day" di Gaetano Riggio - Per la Rubrica "Lo Spunto Letterario"

Lo Spunto Letterario
di Gaetano Riggio


TRUMP PROCLAMA IL “LIBERATION DAY”

Come se non bastassero la Giornata della memoria, la Giornata del ricordo, e simili, ahimè viziate dalla manipolazione della memoria e del ricordo, ora Trump ha inaugurato la Giornata della liberazione degli Stati Uniti (3 aprile 2025) da un giogo globale, ingiusto ed iniquo, che il suo paese avrebbe pazientemente sopportato per quasi mezzo secolo: “Per decenni il nostro paese è stato violentato”! Ora basta.
Distorsione grottesca e paradossale della realtà storica, che trasfigura in agnello sacrificale dell’ingordigia altrui la potenza egemone mondiale degli ultimi trentacinque anni, che ha esercitato un potere imperiale dal Secondo Dopoguerra in poi, non senza macchiarsi di crimini e nefandezze. In ultimo, il genocidio di Gaza, di cui gli USA sono i finanziatori e i responsabili di ultima istanza.

Il fatto singolare è che Trump, nell’assumere la guida del suo paese in quanto presidente, pare ignorare il lascito dei suoi predecessori, come se quel lascito non fosse il punto imprescindibile di partenza, sia pure di una svolta.
Ha fatto così per la guerra in Ucraina, come se non fosse una guerra per procura degli Stati Uniti, che non avendo dunque fatto altro che concedere soltanto crediti di guerra a Zelenski, ora legittimamente potrebbero chiedere ed esigere precise garanzie di restituzione dei prestiti tramite concessioni di sfruttamento delle risorse minerarie del paese.
Sta facendo lo stesso nei rapporti economici degli USA con il resto del mondo, di cui sono stati il centro egemone imperiale, che ha costruito il sistema di regole che ora Trump, per forza maggiore, si è fatto carico di disfare.

La realtà è che il declino degli Stati Uniti, di cui tanto si discute tra gli esperti da diversi anni, sta ora pericolosamente mostrando i sintomi evidenti del suo avverarsi: stanno infatti pericolosamente scivolando verso l’orlo del baratro, da cui cercano di salvarsi con una mossa disperata e rischiosa: la guerra dei dazi contro decine di rilevanti partner commerciali di tutto il mondo.
Tra gli altri, anche l’amministratore delegato di BlackRock ha dichiarato che è a rischio lo status del dollaro quale moneta internazionale di riserva di valore (dedollarizzazione), che è un altro modo per dire declino, perdita del primato economico, e alla lunga politico e militare.
L’eccezionalità della mossa, comunque, è pari a quella della situazione che cerca disperatamente di affrontare: l’enorme deficit della bilancia commerciale degli Stati Uniti, cresciuto vertiginosamente dal 1990 ad oggi, passando da circa 100 miliardi di dollari del 1990 a circa 450 miliardi di dollari del 2000 per arrivare a circa 1000 miliardi all’anno negli ultimi anni, in un crescendo continuo e ininterrotto.
Un Trentennio in cui il paese si è letteralmente deindustrializzato venendo così a dipendere dall’estero per molte categorie merceologiche, non soltanto in quelle a basso valore aggiunto, ma anche nei settori di punta del progresso tecnologico, in cui i paesi emergenti hanno esercitato una concorrenza sempre più vincente.
Questa situazione non ha subito inquietato il governo statunitense. Infatti, una dichiarazione del segretario al Tesoro americano del 2002, riportata dall’Economist, passata alla storia come “dottrina O’Neill”, sostiene che “nel nostro mondo senza frontiere, l’equilibrio dei conti con l’estero non ha più alcuna importanza”.
Una dottrina che rifletteva l’ideologia globalista e imperiale degli Stati Uniti, che lasciava libertà ai capitali e alle imprese di muoversi liberamente da un paese all’altro alla ricerca del massimo profitto, trascurando però i costi umani e sociali delle delocalizzazioni, di cui hanno beneficiato le stesse multinazionali americane, nella misura in cui trapiantavano le loro fabbriche in Messico, Brasile, Cina, e così via.

Certo, l’equilibrio dei conti con l’estero non significa più nulla se non c’è più “l’estero”, ma nonostante la globalizzazione lo Stato non è scomparso, di conseguenza neanche l’estero, e le istanze nazionali e sociali degli sconfitti hanno ripreso forza fino all’attuale ribaltamento sovranista e protezionista.
In sostanza, la globalizzazione si è ritorta contro i suoi artefici, dal punto di vista dell’economia reale.
Se infatti nel 1929 la produzione industriale degli Stati Uniti era il 44,5 % di quella mondiale, intorno al 2000 era un poco inferiore a quella dell’UE, e un poco superiore a quella del Giappone, per non parlare delle cosiddette tigri asiatiche, e dell’incubo americano attuale, che è la Cina.
In prima istanza, i dazi vorrebbero invertire questo trend, in cui gli USA hanno di fatto perso la competizione economica con il resto del mondo, e ricreare letteralmente il loro tessuto produttivo rendendo difficile l’accesso alle merci estere, e costringendo e incentivando a produrre in patria quanto veniva importato.
Lo stesso obiettivo MAGA – di fare l’America di nuovo grande – parte dalla implicita ammissione che non lo è più, perché è un paese che ha perso drammaticamente capacità produttiva a vantaggio di tutti quei paesi che vantano un attivo commerciale nei suoi confronti, in primo luogo la Cina, ma anche alleati come l’UE, il Giappone, il Canada, eccetera.
Ma non si può dire che sia colpa degli altri paesi, se gli USA si ergono sopra una montagna di debiti, costituiti non solo dal deficit commerciale, ma anche dal debito pubblico, divenuto anch’esso a sua volta insostenibile.
Se viene meno il finanziamento dall’estero di questo duplice debito, la superpotenza americana comunque crolla, appunto perché dipende dall’estero, dal gigantesco afflusso di capitali da tutto il mondo che convergono a Wall Street. Ma questo afflusso potrebbe improvvisamente cessare o invertire direzione, se cambia la percezione, da parte di coloro che dispongono di grandi capitali, degli USA come il forziere sicuro e protetto del mondo, come il luogo più sicuro dove custodire i soldi, e farli fruttare.

Come finanzierebbero il debito pubblico e i 1000 miliardi annuali di deficit commerciale, se la dedollarizazione portasse alla fuga da Wall Street verso i centri finanziari emergenti, appartenenti all’area Brics?
Questo afflusso verso Wall Street è stato definito come il tributo imperiale pagato agli Stati Uniti dagli Stati vassalli e dai protettorati sparsi per il mondo, un rapporto di subordinazione al centro dell’impero che nasce in seguito alla vittoria nella Seconda guerra mondiale, consolidato dagli stretti rapporti economici, in cui se gli USA hanno sempre più importato merci, hanno però depredato i risparmi che lasciavano i paesi d’origine per approdare a Wall Street per alimentare un capitalismo non più industriale, ma finanziario, in cui l’elite finanziaria globalizzata si arricchiva, mentre il tessuto industriale si disgregava sempre di più con impressionanti effetti sociali ed economici.
L’aggressività predatoria, nonché il vittimismo di Trump (“è da decenni che siamo violentati e saccheggiati, anche dagli amici”) tradisce il timore che il parassitismo finanziario stia volgendo al termine, perché gli investitori trovano sempre meno sicuro portare i loro capitali negli Usa, per cui occorre agire in due direzioni:

1 – riequilibrare il deficit commerciale partendo dai dazi, ma allo scopo di reindustrializzare il paese e riequilibrare la bilancia commerciale;
2 – far affluire capitali, incoraggiando o obbligando a investire negli USA.

Per quanto riguarda il primo e il secondo punto, anche la guerra in Ucraina è rientrata in questa strategia: da una parte l’esportazione delle armi, dall’altra quella del gas liquefatto al posto di quello a basso costo russo, avevano lo scopo di ridurre il deficit commerciale USA a spese dell’Europa, costretta da vassallo quale è a tagliare i ponti con la Russia, e fare deficit con gli USA. Dall’altra l’aumento dei costi del sistema industriale UE era esplicitamente mirato a indurre le imprese europee a portare o riportare i loro impianti in America. Reindustrializzazione degli USA e deindustrializzazione dell’UE: la prima ovviamente a spese della seconda.
Anche il Trentennio di guerre, iniziato con il bombardamento di Belgrado (1999), e l’invasione dell’Afghanistan (2001), rientrava in quella strategia del caos calcolato, volto a mantenere il primato finanziario degli USA, che doveva rimanere l’unico luogo sicuro dove le élite capitalistiche potevano depositare le loro ricchezze.
Ma rimaneva comunque la fragilità estrema di un paese che dipendeva dall’estero, deindustrializzato, la cui egemonia finanziaria è ormai apertamente sfidata dalla Cina, dalla Russia e dai Brics, con il rischio concreto che il dollaro continui a perdere il suo ruolo di moneta di riserva, e di una catastrofica fuga dei capitali da Wall Street, con due effetti: gli USA non potrebbero più finanziare i loro acquisti dall’estero, e il governo finanziare il gigantesco debito e gli oneri imperiali con l’emissione di Treasury Bond.
Per scongiurare questa catastrofe, prima ancora dei dazi, Trump ha istituito il Doge (Dipartimento dell’efficienza governativa), per ridurre il debito pubblico (non si sa con quali costi sociali e quanto sostenibili), e ora la guerra daziaria contro il resto del mondo, che peggiorerà comunque il potere d’acquisto di milioni di cittadini, anche se alla lunga dovrebbe ridare slancio all’economia, ora in netto declino.
Stiamo comunque assistendo a una crisi epocale del libero scambio globale, e al ritorno dello Stato, che di nuovo rivendica la sua sovranità sulle dinamiche sovranazionali del mercato, con politiche economiche interventiste e protezioniste. Sovranismo.
Non si sa se gli USA torneranno grandi, ma solo come Stato, non più come Impero, al netto delle convulsioni drammatiche che questo processo potrebbe comportare.

Gaetano Riggio


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Carletto Romeo