Carletto Romeo
“Rosa e le altre – La rivolta armata di Auschwitz” di Francesco Tropeano
RICEVO E PUBBLICO
RACCONTO DI FRANCESCO TROPEANO
“Rosa e le altre – La rivolta armata di Auschwitz”
In questi giorni, mentre abbiamo ancora negli occhi le immagini della arrogante protervia del potere tecno-militare e ci sentiamo schiacciati ed impotenti dalla nuova legge della giungla plasticamente rappresentata dai bulli d’oltreoceano, è almeno di conforto ricordare come, anche nelle condizioni più abbiette, è possibile alzare, in qualche modo, la testa. E per questo otto marzo la lezione non può che venire dalle donne. Dalle donne rasate e tatuate che popolavano il campo di sterminio di Auschwitz.
“Tornavo dal turno di giorno, insieme alle mie compagne. Andavamo dalla fabbrica al campo, e lungo la strada abbiamo incontrato quelle del turno di notte che andavano a prendere il nostro posto. Erano sconvolte, piangevano disperate, qualcuna si fermava a parlarci, preparatevi, vedrete una cosa terribile! E infatti, quando siamo arrivate nel piazzale di Auschwitz, abbiamo visto due forche stagliarsi contro la luce del crepuscolo. Era ancora giorno, anche se le giornate si stavano accorciando. Appese alle forche
c’erano due ragazze che venivano impiccate da ore, lentissimamente, in modo che i corpi continuassero a fremere, per farle vedere a tutte noi della fabbrica Union. Quando siamo arrivate ci hanno fatto mettere in ginocchio e il comandante del campo ha detto, guardate bene, perché questo è ciò che capita a chi fa del sabotaggio. Ci ha tenute lì parecchio tempo, a guardare. Proprio lì con noi c’era la sorella di una di queste due ragazze, anche lei obbligata a guardare. Il cielo era terso, era una giornata in cui non aveva piovuto; poi, man mano che calava la sera, le due forche vennero illuminate dalla luce dei fari.”
Così raccontava Liliana Segre quella tragica sera del 6 gennaio 1945, quando vennero impiccate le quattro donne che avevano fornito l’esplosivo ai prigionieri per la rivolta armata nel campo di concentramento di Auschwitz. Quattro eroine giustiziate dopo settimane di violenze e torture nel famigerato blocco 11 della Gestapo. Quattro ragazze poco più che ventenni.
Una di loro si chiamava Rosa Robota. Prima di essere imprigionata, ancora adolescente, era molto impegnata nel sociale e faceva parte di un movimento politico culturale denominato Socialismo Ebraico. Stava frequentando il Liceo Classico ed era una fra le studentesse più brillanti. Proveniva da una colta famiglia polacca di religione ebraica. Con l’arrivo dei nazisti la loro casa fu requisita e dovettero stiparsi come sardine nel ghetto della loro città, e lei e sua sorella furono costrette ad andare a servizio nella casa di un notabile locale. Ma dopo alcuni anni nel ghetto, tutta la famiglia fu poi deportata ad Auschwitz.

IL CAMPO DEGLI ORRORI
Auschwitz non era un unico campo di concentramento, ma si estendeva per decine di km quadrati e comprendeva almeno 50 sottocampi. I campi principali erano tre, così come tre furono le rampe ferroviarie che nel corso degli anni vennero predisposte: la prima fu creata per servire il campo denominato Auschwitz I, le altre due per far sbarcare gli ebrei portati ad Auschwitz II-Birkenau. Il campo III, infine, distante alcuni chilometri dagli altri, venne messo in funzione per sfruttare il lavoro dei detenuti nella costruzione di una gigantesca succursale della IG Farben, la più grande industria chimica della Germania e dell’Europa intera.
Appena Rosa scende dal carro bestiame con la sua famiglia, deve subire il primo shock: la selezione.
Vengono formate due file in base all’età, lo stato di salute, la costituzione fisica. Le SS con i cani lupo al guinzaglio e due medici tedeschi in camice si incaricano di individuare chi è in grado di lavorare e produrre, mentre tutti gli altri, la maggior parte, cioè donne gracili, vecchi e bambini vengono avviati verso le camere a gas, spintonati da soldati tedeschi coadiuvati da un gruppo di prigionieri col pigiama a righe, sono questi i Sonderkommando (squadra speciale). Rosa, abile al lavoro, andrà nei lager, ma i suoi genitori e sua sorella moriranno soffocati di lì a poco ed inceneriti nei forni. I pochi bambini risparmiati erano solo i gemelli. Che non vivranno, comunque, più di una settimana, moriranno anche loro nelle camere a gas, dopo essere stati cavie del dott. Josef Mengele, che conduceva, appunto, esperimenti sui gemelli.
La maggior parte delle donne prigioniere, come Liliana Segre, sono costrette a lavorare nella fabbrica bellica Weichsel-Union-Metallwerke, detta semplicemente Union, che diventerà la Krupp, a forgiare munizioni e proiettili per mitragliatrici. Rosa invece viene destinata al magazzino dove si raccoglievano gli indumenti, le scarpe e gli effetti personali delle persone uccise nelle camere a gas. Tutto ciò veniva lavato, pulito e spedito in Germania. Nel gergo del campo, il magazzino veniva chiamato Kanadakommando. Con tale espressione (che probabilmente evocava la ricchezza e l’abbondanza) era designato un vasto settore di baracche-magazzino, nelle quali erano stipati tutti i beni prelevati agli
ebrei, dopo che essi li avevano abbandonati sulla rampa ferroviaria o negli spogliatoi dei Crematori.
Lavorando in questo magazzino Rosa aveva la possibilità di rimanere nel campo tutto il giorno, mentre le altre prigioniere, svegliate all’alba dovevano, zoccoli di legno ai piedi, recarsi alle fabbriche, dove rimanevano a lavorare per 12 ore in turni diurni e notturni. Rimanevano anche nel campo i Sonderkommando che svolgevano un compito orrendo ed atroce.

ANATOMIA DI UNO STERMINIO
Ogni giorno, i Sonderkommando erano costretti a far funzionare le camere a gas e i crematori, mentre sempre più vagoni pieni di ebrei europei arrivavano ad Auschwitz. Dopo che le SS avevano costretto i prigionieri a entrare nell’anticamera delle camere a gas, i membri del Sonderkommando li aiutavano a spogliarsi. Mentre le guardie armate osservavano, conducevano i prigionieri in quella che sembrava una gigantesca sala docce. Le SS costringevano i membri del Sonderkommando a far entrare di corsa i prigionieri nella camera a gas dopo essersi spogliati e tolte le scarpe che dovevano essere annodate una all’altra per evitare che dopo ci fossero scarpe spaiate. Uomini e donne, completamente nudi, erano infine stipati nella vasta camera a gas, mascherata da struttura di disinfezione. Una volta che i prigionieri erano nella camera, un SS chiudeva la grande porta di metallo dietro di loro, sigillando la stanza. Un altro ufficiale SS svuotava dentro una lattina di Zyklon B, un gas tossico che soffocava le centinaia, a volte migliaia, di persone all’interno. Introdotto da botole poste sul tetto, i cristalli verdastri dello Zyklon B, a base di cianuro, si depositavano sul pavimento e agivano dal basso verso l’alto. I più forti
volevano sempre salire, salire più in alto. Certamente sentivano che più si saliva meno mancava l’aria, meglio si poteva respirare. Ed è per questo che i bambini e i più deboli, i vecchi, si trovavano sotto gli altri. Nella camera, avvolta nel buio assoluto, perché alla chiusura della porta spegnevano le luci, si svolgeva così una disperata (quanto inutile) lotta per la sopravvivenza. Trenta minuti dopo, un SS che indossava una maschera antigas apriva le porte. La scena era terribile: i cadaveri erano ammassati a forma di piramide, a furia di salire uno sull’altro, che arrivava quasi al soffitto. A quel punto i membri
del Sonderkommando erano costretti a rimuovere i corpi dalla camera, trasportarli al crematorio e caricarli nei forni.
Il soffocamento dei deportati e la successiva cremazione dei poveri cadaveri veniva sintetizzata dal comando tedesco in una sola parola: Sonderaktion (operazione speciale). Vi ricorda qualcosa?
Tutti i cadaveri prelevati dalla camera a gas erano sottoposti ad una precisa procedura. Alle donne, i “barbieri” tagliavano i lunghi capelli, che poi erano inviati alla conceria situata vicino al campo base e infine spediti in Germania (dove erano utilizzati come fibre tessili per fabbricare tappeti, oppure come imbottiture). Tutti i corpi erano poi ispezionati alla ricerca di denti d’oro, estratti da un’apposita squadra di “dentisti”. Infine i cadaveri erano portati nel locale dei forni, situato al livello del terreno (mentre lo spogliatoio e la camera a gas erano seminterrati). I Crematori più grandi erano dotati di 5 batterie di forni.

Rosa Robota
I Sonderkommando erano tutti dei prigionieri che venivano scelti fra i più vigorosi e corpulenti.
Ovviamente non ci si poteva rifiutare di farne parte, pena l’immediata esecuzione. Dovettero spesso assistere impotenti alla morte di familiari e amici. Avevano il privilegio di cibo e coperte in abbondanza,e di tutti i “comfort” di cui potevano aver bisogno nelle loro baracche. I soldati delle SS, che facevano a gara per partecipare alle Sonderaktion, avevano per premio una razione speciale, consistente in un quinto di litro di acquavite, 5 sigarette e 100 gr. di pane e salsiccia.
Così Rosa dalle finestre del magazzino vestiario vedeva continuamente i membri dei vari reparti del Sonderkommando che si aggiravano con i loro carichi di cadaveri, quando i forni non bastavano a smaltirli. Oppure con le carriole piene di ceneri che svuotavano in uno stagno ai lati del campo. Così riconobbe tra loro alcuni suoi concittadini che facevano parte della resistenza antinazista. Stabilisce un contatto con alcuni di loro, esasperati per quello che dovevano quotidianamente fare e l’orrore che li circondava. Volevano ribellarsi, ma non ne avevano i mezzi. Erano gli ultimi mesi del 1943 ed incominciarono a studiare un piano per organizzare una rivolta. Il compito di Rosa era fondamentale.
In poco tempo riuscì a reclutare una ventina di ragazze prigioniere che lavoravano nella fabbrica Union e li convinse a portare di nascosto fuori dalla fabbrica piccolissime quantità di polvere da sparo. Anche se sotto costante sorveglianza, le donne nella fabbrica prendevano piccole quantità di polvere da sparo, le avvolgevano in pezzi di stoffa o carta, se le nascondevano addosso, tra i seni o nell’orlo dei vestiti, e poi le passavano a Rosa. Questi a sua volta li faceva arrivare ai tre prigionieri del Sonderkommando con
cui stava organizzando la rivolta: Noah Zabludowicz, Israel Gutman e Yehuda Laufer.

Crematorio 3
Gli esplosivi venivano nascosti sul carro tra i cadaveri e poi portati in sicurezza nel crematorio n. 4.
In quel periodo i Sonderkommando vennero decisamente rinforzati, per far fronte alle nuove esigenze.
L’afflusso di vittime, inoltre, era talmente elevato, che oltre ai quattro grandi crematori venne rimesso in funzione anche il cosiddetto Bunker II, la piccola camera a gas ricavata in una casa colonica situata nei pressi del lager. Ai Sonderkommando venne aggiunto un centinaio di giovani ebrei greci. Con loro, nell’estate 1944, la squadra speciale raggiunse i 900 membri, divisi in reparti di circa 150 uomini. Gli uomini del Sonderkommando lavoravano in due turni, cosicché i crematori funzionavano giorno e notte, senza alcuna interruzione. Inoltre, mentre inizialmente la squadra speciale era alloggiata in
blocchi particolari, ben separati da quelli degli altri detenuti, ma comunque posti all’interno del campo, nell’estate del 1944 il Sonderkommando alloggiò in camerate ricavate all’interno degli stessi crematori.
Ma probabilmente i tedeschi avevano fiutato qualcosa di strano tra i prigionieri. Il 23 Settembre 1944 fu ordinato un appello e furono chiamati in duecento tra i Sonderkommando. L’appello era sempre una cattiva notizia ed i prigionieri temevano sempre il peggio. Il pretesto fu il trasferimento in un altro campo, in realtà furono portati a pochi chilometri dal lager e trucidati tutti.
Questo episodio turbò non poco i prigionieri e rischiò di far fallire il piano per la rivolta. Almeno una decina dei Sonderkommando uccisi erano parte attiva del piano. Ma questo episodio servì anche per una accelerazione ai preparativi per la ribellione. Non si può più perdere tempo. Il destino dei Sonderkommando era chiaro: sarebbero stati tutti uccisi, avevano capito di essere i testimoni scomodi di un orrore senza fine e della sadica crudeltà del nazismo. L’ora X della rivolta era stabilita per il 7 ottobre 1944. Un altro 7 ottobre!
E VENNE IL GIORNO
Il piano così tanto a lungo studiato, prevedeva lo scoppio di una rivolta che avrebbe coinvolto tutta Auschwitz. Avrebbero fatto saltare la corrente elettrica al campo, interrompendo le comunicazioni tra le SS e le unità circostanti e disattivando le recinzioni elettriche. Avrebbero così potuto tagliare il filo spinato, consentendo a migliaia di prigionieri di fuggire. Il Sonderkommando avrebbe quindi distrutto le camere a gas e i crematori, con l’esplosivo della fabbrica Union, ponendo fine all’omicidio di massa
su scala industriale. La data e l’orario erano segnati: 7 ottobre 1944 ore 14.

Ma la fortuna non era dalla loro parte. La notte prima della rivolta, i piani stavano già iniziando a sgretolarsi. Otto Moll, il sadico ufficiale delle SS che presiedeva le camere a gas e i crematori, cominciò a sospettare del comportamento dei prigionieri. Trascinò fuori dal crematorio Yaacov Kaminski, uno dei leader del movimento di resistenza del Sonderkommando, ed iniziò a interrogarlo. Quando Kaminski non volle divulgare alcuna
informazione, negando disperatamente la preparazione della rivolta, Moll gli sparò in testa. La sua morte fu un duro colpo per gli uomini del Sonderkommando.
Ma ormai il dado era tratto. L’indomani sarebbe iniziata la resa dei conti.
La mattina di sabato 7 ottobre, al capo del Sonderkommando del Crematorium IV fu ordinato di stilare una lista per il trasferimento di trecento uomini a mezzogiorno dello stesso giorno. Temendo che questo fosse un pretesto per trucidarli tutti, si rifiutò di farlo. Le SS ordinarono allora un appello per mezzogiorno. Lo scopo dell’appello, fu detto ai prigionieri, era di trasferirli in treno per lavorare in un altro campo. Tuttavia, quando il sergente maggiore delle SS chiamò i loro numeri di matricola, solo pochi uomini risposero.
Dopo ripetute chiamate e minacce, Chaim Neuhof, un prigioniero polacco che aveva lavorato nel Sonderkommando dal 1942, si fece avanti. Si avvicinò al sergente maggiore delle SS, gli gridò in faccia che era un boia. Quando l’uomo delle SS allungò la mano verso la pistola, Neuhof, urlando a gran voce la parola d’ordine “Evviva!”, colpì l’uomo delle SS sulla testa con il suo martello, che teneva nascosto nel pigiama a righe. L’uomo delle SS cadde a terra, stecchito. Gli altri prigionieri fecero eco all’Evviva di Neuhof e lanciarono di tutto contro le SS presenti, che reagirono sparando.

Così iniziò la rivolta. Sapevano di non avere nulla da perdere e che era giunto il momento di agire.
Durante la battaglia che ne seguì, diversi membri del Sonderkommando portarono i loro pagliericci al Crematorium IV e li incendiarono. Con la polvere da sparo e le granate artigianali che avevano confezionato con la consulenza dell’artificiere Borodin, un prigioniero russo, fecero saltare i forni distruggendoli completamente. I Sonderkommando avevano anche dei coltelli, trafugati dagli effetti personali dei condannati alla camera a gas. Erano coltelli “sacri” che si usavano nella religione ebraica per il kiddush [benedizione del Sabato]. Erano lunghi e avevano manici bianchi, ma erano state trasformate in sciabole affilandole in tutti i quattro lati.
Guidati, tra gli altri, da Salmen Gradowski, gli uomini del Sonderkommando riuscirono a danneggiare in modo irreparabile i forni del Crematorio IV. Con l’incendio del tetto di legno e le esplosioni delle granate, il Crematorium IV crollò al suolo. Ormai non esisteva più. Aveva finito di essere la catena di montaggio della morte.
Allarmato dalle esplosioni, arrivò ben presto un intero reparto di SS in motocicletta, che prese a mitragliare furiosamente i prigionieri del 12° Sonderkommando in rivolta.
Cominciarono a fuggire mentre intorno a loro scoppiava l’inferno.
Rosa stava ancora pulendo, ad una ad una, le migliaia di scarpe che occupavano gran parte della baracca in cui si trovava. Il frastuono, le urla, il crepitare delle fiamme l’avevano presa di soprassalto. Ancora mancava del tempo all’ora prevista, ma era chiaro che la rivolta era già iniziata. Tentò di vedere qualcosa attraverso i pertugi delle assi vicino alla porta, ma invano. Il Crematorio IV non era proprio visibile da quella posizione. Il pensiero dell’atroce morte dei suoi genitori e di sua sorella la faceva sussultare e fremere schiacciata su quelle assi. Quanto avrebbe voluto essere di là, insieme con gli altri.
Dall’altra parte del campo, al Crematorio II, anche i prigionieri sentirono le esplosioni e videro fiamme che si levavano verso il cielo. Capirono che la rivolta era scoppiata. Per prima cosa gettarono il loro Kapò, un prigioniero tedesco detenuto per reati comuni, nei forni, quindi attaccarono e uccisero due soldati delle SS. Tagliarono il filo spinato che recintava il crematorio, ma dimostrarono nello stesso tempo un enorme senso di responsabilità e di altruismo. In questi ultimi istanti in cui ogni secondo poteva decidere della loro vita, minacciata dalle SS che davano loro la caccia, si attardarono per
adempiere al loro ultimo dovere: tagliare il reticolato del campo adiacente e rendere in questo modo possibile la fuga alle donne. Poi, si avviarono di corsa verso il bosco di betulle ed arrivarono ansanti e trafelati in un villaggio di nome Rajsko, a pochi chilometri di distanza dal campo. Non avevano più fiato, si nascosero in un granaio, aspettando che la resistenza esterna li portasse in salvo.
Ma i partigiani antinazisti non arrivarono mai.
Gli uomini delle SS, grazie anche ai cani, localizzarono rapidamente i prigionieri fuggiti. Quando giunsero al granaio, lo incendiarono, bruciando vivi tutti coloro che erano all’interno. Coloro che furono scoperti nei boschi vicino al Crematorio IV combatterono una sanguinosa battaglia fino alla fine. Circa 250 prigionieri furono uccisi nella rivolta, compresi molti leader della resistenza del Sonderkommando. I morti tedeschi furono cinque e i feriti in modo più o meno grave furono dodici.
L’unico gruppo che sopravvisse indenne furono gli uomini del Crematorio III, circondati dalle guardie nel momento in cui iniziò la rivolta. Il loro Kapò bloccò immediatamente la porta, impedendo a chiunque di agire. Sebbene ne fossero usciti illesi fisicamente, furono gravati dal triste compito di cremare i corpi dei loro compagni caduti.
LA REPRESSIONE
Dopo la rivolta, le SS avviarono un’indagine approfondita. Scoprirono presto i nomi di oltre una dozzina di membri della resistenza del Sonderkommando e li rinchiusero nelle celle del Blocco 11. Gli uomini furono interrogati e torturati, fino alla loro morte. Nel corso dell’indagine, le SS scoprirono anche i nomi di alcune donne che avevano fornito gli esplosivi al Sonderkommando. Furono così recluse nelle prigioni interne della Gestapo tre ragazze: Ala Gertner, Ester Wajcblum, Regina Safirsztajn.

Nonostante settimane di percosse, stupri e scosse elettriche ai genitali, gli unici nomi forniti dalle donne sono quelli di Sonderkommando già morti. Allora la Gestapo cambiò tattica. Li liberò dal carcere nel carcere e permise loro di ritornare in fabbrica.
Intanto aveva addestrato, ed infiltrato come Kapò, un prigioniero cecoslovacco proprio nella fabbrica Union. I risultati non si fecero attendere molto ed ai primi di dicembre, saltarono fuori i nomi dei ribelli sopravvissuti. Così, insieme ad una decina di membri del Sanderkommando, la Gestapo arrestò di nuovo le tre ragazze Gertner, Safirsztajn e Wajsblum, ma stavolta, a insieme a loro fu trascinata nel Blocco 11 anche Rosa Robota. I partigiani antinazisti temevano molto il suo arresto, perché Rosa conosceva molti membri della Resistenza, i loro metodi operativi ed addirittura l’ubicazione di alcune basi.
La Gestapo torturò pesantemente le quattro ragazze per settimane. Gli altri prigionieri sapevano quanto soffrissero le donne.
Una notte, grazie alla corruzione di un kapò ed eludendo la sorveglianza dei soldati SS,
provvidenzialmente ubriachi, un prigioniero amico di Rosa, nonché uno dei leader della Resistenza, Noah Zabludovitcz, riesce ad intrufolarsi nel Blocco 11 e vedere Rosa nella cella per l’ultima volta.
“Ho visto Rosa in cella. Sul cemento freddo giaceva una figura simile a un mucchio di stracci. Al cigolìo dello spioncino, girò il suo viso verso di me… Poi pronunciò le sue ultime parole. Lei mi ha detto che non aveva tradito nessuno. Lei voleva dire ai suoi compagni di non avere paura. Bisognava andare avanti. Era più facile per lei morire sapendo che le nostre azioni sarebbero continuate”.

L’epilogo della vicenda l’ha già raccontato Liliana Segre. Il 6 gennaio 1945, a poche settimane dalla liberazione del campo, le quattro donne furono impiccate per ordine del comandante Hössler. Prima Ala Gertner e Rosa Robota quella sera, mentre la mattina seguente toccò a Ester Wajsblum e Regina Safirsztajn.
Mentre mettevano il cappio al collo di Rosa Robota, lei, rivolta alle centinaia di altre prigioniere costrette ad assistere all’impiccagione, gridò: “Sorelle, Siate forti e coraggiose!”
Francesco Tropeano
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