“Poesia della luce e dell’oscurità”

Nuovo "Spunto Letterario" per il prof. Riggio: Luce e Oscurità nella Poesia

Lo Spunto Letterario
di Gaetano Riggio


Dopo avere delimitato il giudizio estetico, distinguendo nettamente l’atteggiamento del poeta da quello dell’uomo di scienza al cospetto della natura, dobbiamo dare un nome ai criteri di conformità, che consentono di distinguere il bello dal brutto. Un fenomeno della natura è bello, se a esso si possono applicare dei criteri, ai quali deve essere conforme, altrimenti è brutto.

Tutta la tradizione occidentale, a partire dagli antichi greci, ha riassunto questi criteri in tre concetti generali: proporzione, simmetria, armonia; più genericamente, ordine.

L’evidenza della proporzione è immediata nella valutazione della bellezza umana, dove per esempio la lunghezza degli arti inferiori deve stare in un certo rapporto matematico con quella del busto: non devono essere troppo corti, ma neanche troppo lunghi. Una celeberrima rappresentazione delle proporzioni ideali del corpo umano è “l’uomo vitruviano”, un disegno di Leonardo da Vinci del 1490, che riassume tutta la tradizione occidentale, da Pitagora passando per il Canone di Policleto, fino al Rinascimento.

Ma anche la simmetria è riscontrabile nell’uomo vitruviano, che implica una corrispondenza tra elementi di una struttura rispetto a una linea o a un punto di congiunzione: le parti di un cerchio rispetto al diametro; di braccia, spalle, fianchi rispetto alla colonna vertebrale, e così via.

L’armonia è un concetto estetico ancora più generale, che assume un significato tecnico in musica, ma capace di unificare tutte le cose, che “simmetricamente” si corrispondono in quanto in tutte, in quanto belle, vi regna l’armonia: all’ armonia delle sfere celesti corrisponde quella delle note musicali, del corpo umano e delle facoltà dell’anima, in cui microcosmo umano e macrocosmo si rispecchiano l’uno nell’altro! L’armonia implica un accordo di elementi contrastanti, in cui dalla concordia discorde scaturisce il bello, mentre il brutto è l’eccesso che rompe l’ equilibrio. Il brutto non sarebbe allora qualcosa, ma una relazione sproporzionata tra cose.

Ma qual è il criterio di conformità di bellezze naturali semplici come la luce, e l’oscurità, l’ azzurro del cielo e del mare, le vaste distese diafane dell’aere, e simili? A che cosa sarebbero conformi, nella loro astrattezza cromatica, priva di forma e di articolazioni tra parti costituenti, così da essere simboli della bellezza stessa?

Iniziamo a ragionare sulla luce. In primo luogo, perché la luce è bella? Vale per essa un criterio di conformità, e se sì, a quale modello ideale sarebbe conforme? In realtà, la luce è naturalmente bella, e non esiste una luce che sia brutta (sarebbe una contraddizione): tutt’al più, possiamo indicare la vividezza o la purezza della tonalità luminosa, come criterio per apprezzare una luce concreta più di un’altra, soprattutto nell’ ambito della creazione artistica (un dipinto, un mosaico, e così via). Ma qui ci occupiamo soltanto della luce in quanto bellezza della natura, e non del fenomeno artistico. Quindi per la bellezza del fenomeno luminoso non vale il criterio di conformità, quanto piuttosto quello dell’analogia, per il quale la luce è bella in quanto in essa si manifesta l’essere, in opposizione al nulla.

La luce è una bellezza semplice, perché non è fatta di parti che abbiano una forma, e relazioni più o meno conformi ai criteri estetici della proporzione, della simmetria, dell’ armonia, rispetto ai quali valutare se è bella o brutta. Nella sua diffusività, ha quella vaghezza, quella indeterminatezza che è proprio di ciò che è semplice.

La luce piena è quella vaghezza (che è assenza di forma e di forme) in cui però le cose vengono all’ essere, contrariamente al buio, in cui la varietà degli enti, delle forme e delle loro relazioni ritornano nel nulla. Allora la luce è quanto di più trascendente e di immanente vi possa essere: trascende i singoli enti, ma allo stesso tempo dà loro quella forma che si rivela soltanto nel flusso incidente sui corpi. La semplicità della luce è vaghezza che è in potenza tutte le cose, e quindi (anche) immagine positiva del divino in quanto potenza creante e generante.

Questa gloria creante è celebrata da Dante nella prima terzina del Canto I del Paradiso: “La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove. / Nel ciel che più de la sua luce prende / fu’ io, e vidi cose che ridire / né sa né può chi di là sù discende; / perché appressando sé al suo disire, / nostro intelletto si profonda tanto, / che dietro la memoria non può ire.” La gloria di Dio è splendore che penetrando si diffonde per l’universo, sia pure con un’intensità digradante, come Dante ribadisce nel canto XXXI del Paradiso: “la luce divina è penetrante / per l’universo secondo ch’è degno, / sì che nulla le puote essere ostante.”

L’essere degli enti creati è come luce che fluisce dall’atto creativo di Dio, e dunque la luce è simbolo di esuberanza e pienezza colma, manchevole di nulla, anche se di fatto gli enti creati partecipano secondo una misura discendente e calante di questa luce, e della perfezione dell’essere.

Ecco perché l’ anelito alla luce è desiderio di beatitudine, e pienezza, di ascendere su per la scala dell’essere fino alla perfezione. Un simile slancio è espresso da Baudelaire in “Elevazione”: “Dietro di sé le noie, i vasti orrori / gravanti sulla brumosa vita, felice / chi con robuste ali saprà / slanciarsi verso campi di luce e sereni”. Ed ecco perché un ente che emana luce, esprime la piena positività dell’essere: tutto ciò che irradia luce, partecipa di una bellezza misteriosa ed enigmatica, che pare zampillare dalla sorgente eterna: la luce dello sguardo, la luce del sorriso, la luce di una particolare vitalità, la luce della mente e della conoscenza, come in questo brevissimo estratto da d’Annunzio (da “Il trionfo della morte”): “Una divina consolazione ella su me versa col suo sorriso; il supremo refrigerio ella mi reca”, o come in quest’altro: “Di che soave sorriso egli sorride! Non lo vedete? Come di sideral luce risplende! Non lo vedete voi? Non lo sentite?”.

Basta comunque un bel mattino di luce limpida, dopo una notte tempestosa, per godere di una bellezza maestosa! In una situazione del genere possiamo provare una gioia giubilante, che non è gioia di qualcosa, una gioia intransitiva che non passa sull’ oggetto, ma è soltanto uno stato dell’anima, per il quale è come se uno sedesse sopra un trono di regalità.

Come splendidamente ci rappresenta Leopardi: “Ecco il sereno / Rompe là da ponente, alla montagna; / Sgombrasi la campagna, / E chiaro nella valle il fiume appare. / Ogni cor si rallegra, in ogni lato / Risorge il romorio […] Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride / Per li poggi e le valli. Apre i balconi, Apre terrazzi e logge la famiglia”.

Un ragionamento analogo vale per l’azzurro (del cielo). Innanzitutto, la sua bellezza dipende non dall’analogia, ma dalla metonimia che lo lega alla luce. Infatti, l’ azzurro segue sempre la luce nel suo trionfo sulle nubi oscuratrici, e dunque il suo significato è associato ad essa.

In generale, le emozioni non sono altro che cromatismi. Il cromatismo della gioia, dello slancio verso la piena realizzazione di sé, è l’ azzurro (associato alla luce, ovviamente). L’azzurro non ha parti e non ha forma, analogamente alle emozioni della gioia, del giubilo, della serenità piena, che sarebbero irrappresentabili e incomunicabili, se fossero privi di correlati nel mondo sensibile.

L’azzurro è il mare in cui l’anima nuota, o in cui aspira a nuotare, e dunque simbolo di piena e anelante attuazione del suo potenziale, ma privo di contenuti, come privo di contenuti, e dunque vago, è l’azzurro medesimo. L’azzurro è allora specchio in cui l’anima si riflette, per fondersi con esso. In questa fusione, consiste l’ unione dell’ anima al tutto (panismo), in cui si libera dal solipsismo nella pienezza della relazione. Oppure può accadere che prevalga la coscienza frustrante e dolorosa di una separazione e di una distanza incolmabili da questa unione.

Come non richiamare, a questo riguardo, alcuni versi della lirica “L’azzurro” di S. Mallarmé: “Dell’eterno azzurro l’ironia / serena sovrasta indolente e bella come i fiori / Il poeta che impotente maledice la sua vena / In mezzo a uno sterile deserto di Dolori.” L’eterno azzurro ci canzona illudendoci di poterlo attingere, per lasciarci nel tormento di una pienezza mai raggiunta. Ecco perché il suo trionfo è una maledizione per chi sa di esserne escluso: “Niente! L’Azzurro trionfa, e cantare lo sento / nelle campane. Esso si fa voce, anima mia, / Per farci con la brutta vittoria più spavento, / E dal vivo metallo celesti angelus avvia.” Il poeta vorrebbe sottrarsi a questo tormento dell’impotenza e dell’ ossessione, ma non ci riesce: “ Dove fuggire in rivolta inutile e perversa? / L‘Azzurro! L’Azzurro! L’Azzurro, L’Azzurro! Ne sono abitato!”

Il buio può essere visto da due punti di vista: o in un isolamento, che ne fa il simbolo della morte, e dell’ annientamento irreversibile, come nel verso del famoso sonetto “Alla sera”, di Ugo Foscolo, (“Vagar mi fai coi miei pensieri su l’ orme / che vanno al nulla eterno”), nel qual caso non è bello; oppure nella relazione – alternanza con il giorno, nel qual caso è bello, come nel seguente frammento del poeta greco Alcmane di Sardi: “Dormono le cime dei monti e le gole, i picchi e i dirupi, e le schiere di animali, quanti nutre la nera terra, e le fiere abitatrici dei monti e la stirpe delle api e i mostri negli abissi del mare purpureo; dormono le schiere degli uccelli dalle ali distese”.

Qui la notte è il manto che custodisce i viventi nel sonno restauratore, che propizia il risveglio e il ritorno della luce: si realizza l’armonia intesa come concordia discorde, conciliazione dei contrari, alla quale abbiamo fatto cenno all’ inizio di questo testo.

Nel rapporto luce – oscurità possiamo dunque applicare il criterio dell’ armonia in quanto fattore di bellezza, che non manca nel famoso testo ermetico di Quasimodo “Ed è subito sera”: “Ognuno sta solo sul cuor della terra, / trafitto da un raggio di Sole: / ed è subito sera.”

In realtà si ha qui una tensione tragica tra il “raggio di Sole” e la “sera”, in cui il raggio soccombe, e non un’armonia dei contrari, che è possibile solo a livello sopraindividuale, nel succedersi delle generazioni, o ancora più letteralmente in quello astronomico dei giorni, e delle stagioni, dove né la luce prevale sulle tenebre, né le tenebre sulla luce. L’ armonia non esclude il lato negativo delle cose, ma fa nascere il bello dal contemperarsi degli elementi contrastanti.

Il buio simboleggia altresì il mistero insondabile del mondo che si sottrae all’indagine razionale, e alla presa dei concetti, e dunque rimane coperto, nascosto in una profondità insondabile. Anche qui, è un modo simbolico per alludere al divino, ma per via negativa, mentre la luce è un modo positivo di parlarne, per mezzo degli effetti esperibili della sua azione creatrice o generatrice. Si può anche usare, in modo sintetico, l’ossimoro di “caligine luminosissima”, come suggerito da Dionigi Areopagita.

Gaetano Riggio


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Carletto Romeo