Carletto Romeo
“Mia Opinione Non Richiesta Sul Film Caracas” di Barbara Di Fabio
Recensione del film “Caracas” di Barbara Di Fabio – Attenzione Spoiler
Siccome sarà proiettato al Vittoria in questa settimana, vi allieto del narcisismo grafomane con cui vi descrivo “Caracas” di e con Marco D’Amore, con Toni Servillo e una nuova promessa del cinema francese, Lina Camelia Lumbroso.
Il film trae ispirazione dal romanzo di Ermanno Rea “Napoli Ferrovia” (che consiglio di leggere), ma non è una trasposizione vera e propria, in questo caso il regista (e anche autore) “ruba” le atmosfere del libro e, naturalmente i tre personaggi principali: Giordano Fonte, scrittore di fama mondiale in crisi creativa, che torna a Napoli dopo anni di volontario esilio (Toni Servillo), Caracas, personaggio eclettico, che coltiva dapprima idee di estrema destra, per poi -anche per amore – decidere di convertirsi all’Islam (Marco D’Amore) e Yasmina, giovane musulmana di seconda generazione, intensa, licenziosa, vittima dell’eroina (Lina Lumbroso). Le sinossi sono la cosa più noiosa che esista, e in più ognuno di noi può cercarla su Google (grazie della collaborazione).
Oltretutto non è la trama ciò che è importante in questo film, ma le sensazioni che il racconto suscita.
Film d’amore e di mancanze, di bisogni insopprimibili, di pessimismo e speranza, drammaticamente in bilico tra sogno e realtà, una prova mentale per lo spettatore che sin dall’inizio condivide la sensazione di straniamento di Giordano Fonte, ossessionato dai suoi personaggi, dalla cui presenza nella sua mente viene quasi soverchiato, sino a diventare egli stesso una parte incontrollata della storia che ha in mente di scrivere. Tutti vittima in qualche modo di una mancanza, (perché l’amore stesso lo è), di un bisogno. Caracas vittima del bisogno di un padre andato via troppo presto, questa ingombrante assenza pervaderà tutti gli interstizi della sua mente, gettandolo in un Purgatorio di ricerca perenne. Fonte dalla mancanza di Napoli che trova completamente trasformata al suo ritorno; come il ritorno dell’Eroe, Ulisse, che torna a Itaca intimamente cambiato e come una classica proiezione junghiana attribuisce il cambiamento alla città e non a sé stesso, Yasmina dall’inadeguatezza che le fa scegliere una misera e facile via di fuga: la droga. L’intreccio circolare degli eventi, i colori dolorosi della fotografia, una colonna sonora che descrive sentimenti e atmosfere dal ritmo percussivo, una Napoli irriconoscibile, che diventa personaggio autonomo del film, la città è quasi una sottotrama, un personaggio autonomo, ma volutamente rappresentato mai direttamente in primo piano, ma come un’ inquadratura del riflesso della luna sul mare di notte, attraverso le mobili striature di gioia e sconforto che una illusione ottica può dare.
Hai sempre la sensazione che, forse, battendo tre volte i tacchi, puoi uscire dalla straniante sensazione di ottundimento di Giordano, ma ormai ci sei dentro, e quel sogno sporco e magico lo vuoi inseguire per vedere come andrà a finire, temendo, però, che la parola fine non ti darà la soluzione, non dipingerà scenari confortanti, ma avrai sempre a che fare con l’illusione striata di gioia e sconforto che è la vita. Tutto ciò contribuisce ad ingenerare nello spettatore la sensazione di sognare il sogno estraniante dello scrittore e di percepire la realtà distorta che lo stesso Giordano Fonte crede di percepire. E, sino alla fine, ci si chiede quale sia la soluzione.
Spoiler: la soluzione non c’è, o meglio non è fornita dalla ditta D’Amore-Ghiaccio, bontà loro. La soluzione la deve trovare lo spettatore, se gli va, in una autonoma e personalissima sfida intellettiva, basandosi sulla sua capacità intuitiva di farsi guidare dal sogno, perché come Giordano dice a Caracas “conta solo quello che senti” (l’ho tradotto dal napoletano per non ingenerare problemi tipo televoto a Sanremo).
Consigliato.
Barbara Di Fabio
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