La pulizia etnica della Palestina

Dal saggio dello storico israeliano Ilan Pappé (Haifa, 1954) le considerazioni del prof. Gaetano Riggio

A scanso di equivoci, preciso subito che non sto né facendo un’affermazione né un’accusa, ma molto più modestamente riporto il titolo di un saggio dello storico israeliano Ilan Pappé (Haifa, 1954), “uno dei rappresentanti della cosiddetta Nuova storiografia israeliana, che ha come “fine scientifico ed etico quello di sottoporre a un accurato riesame la documentazione orale, che è prevalsa per decenni, nel tracciare le linee ricostruttive storiche relative alla nascita dello Stato d’Israele e del sionismo in Israele; nella “nuova storiografia” Pappé rappresenta la voce più critica nei confronti della leadership israeliana (da Ben-Gurion in poi) e in favore dei palestinesi.”
A differenza di Benny Morris (Ein Hahoresh, 1948), che è comunque un altro esponente di questa nuova storiografia, il quale ritiene che l’esodo palestinese del 1948 sia stato il risultato della guerra, e della fuga della popolazione dai combattimenti, per Pappè invece “l’esodo palestinese può essere paragonato ad un’operazione di «pulizia etnica», conseguenza di una politica pianificata da David Ben Gurion e messa in opera dai suoi consiglieri; sempre secondo Ilan Pappé, questa politica fu applicata fin dal dicembre del 1947[2], ben prima quindi della proclamazione dello Stato d’Israele (1948).”
Questa tesi è documentata e argomentata da Ilan Pappè ricorrendo a documenti d’archivio divenuti accessibili, che tra l’altro gli permettono di ricostruire la meticolosa e scientifica preparazione dell’espulsione dei palestinesi. Questa preparazione consiste in quello che l’autore chiama “la schedatura dei villaggi” palestinesi, circa 1200, tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX.
L’idea della schedatura, afferma Pappé, “venne da un giovane storico occhialuto dell’università ebraica, di nome Ben-Zion Luria, allora impiegato nel Dipartimento dell’istruzione dell’Agenzia ebraica. Luria sottolineò l’utilità di un registro dettagliato di tutti i villaggi arabi e propose che tale inventario fosse gestito dal Fondo Nazionale Ebraico (JNF).” (Pappé, Ilan. La pulizia etnica della Palestina (p.40). Fazi Editore. Edizione del Kindle.) Pappè riporta altresì la valutazione di Luria sull’utilità dell’archivio, fatta al Fondo Nazionale Ebraico: «Questo sarebbe di grande aiuto alla redenzione del paese», scrisse al JNF46. (Pappé, Ilan. La pulizia etnica della Palestina (p.40). Fazi Editore. Edizione del Kindle.)


Il Fondo Nazionale Ebraico, ci spiega Pappé, era stato fondato nel 1901, ed era “il principale strumento sionista per la colonizzazione della Palestina. Fungeva da agenzia del movimento sionista per comprare terre palestinesi sulle quali poi insediava gli immigrati ebrei.” (Pappé, Ilan. La pulizia etnica della Palestina (p.40). Fazi Editore. Edizione del Kindle.)
Figura di spicco del JFN, era un certo Jossef Weitz, “capo del Dipartimento insediamenti. Weitz era la quintessenza del colonialista sionista. La sua priorità assoluta era quella di facilitare lo sfratto dei fittavoli palestinesi dalla terra comprata da proprietari assenteisti che probabilmente vivevano a una certa distanza dalla propria terra o anche fuori del paese, avendo il Mandato creato confini là dove prima non c’erano.” (Pappé, Ilan. La pulizia etnica della Palestina (pp.40-41). Fazi Editore. Edizione del Kindle.)
Ad ogni modo, la terra acquistata dagli ebrei, a fine Mandato (1948), era circa il 5,8 per cento delle terre palestinesi. Era troppo poco per le ambizioni statuali e coloniali dei sionisti. Ecco perché “Weitz si entusiasmò quando sentì parlare della schedatura dei villaggi, suggerendo immediatamente di trasformarla in «progetto nazionale»50.” (Pappé, Ilan. La pulizia etnica della Palestina (p.41). Fazi Editore. Edizione del Kindle.)
Per prima cosa furono mappati i villaggi palestinesi. La direzione del lavoro fu affidata a un topografo dell’università ebraica, con il reclutamento di fotografi, orientalisti, informatori, e la conduzione di rilevamenti fotografici aerei. Il tutto si svolse segretamente, all’insaputa delle autorità britanniche. Il metodo seguito fu meticolosamente scientifico e sistematico: “Furono registrati precisi dettagli sulla collocazione di ogni villaggio, le vie di accesso, la qualità della terra, le sorgenti d’acqua, le principali fonti di reddito, la composizione sociopolitica, le affiliazioni religiose, i nomi dei mukhtar, il rapporto con gli altri villaggi, l’età degli uomini (dai sedici ai cinquant’anni) e molti altri dettagli. Una categoria importante era l’indice di “ostilità” (verso il progetto sionista), stabilito dal livello di partecipazione del villaggio alla rivolta del 1936. C’era un elenco di chiunque avesse preso parte alla rivolta e delle famiglie di coloro che avevano perso qualcuno nella lotta contro gli inglesi. Veniva riservata una particolare attenzione alle persone che si presumeva avessero ucciso ebrei. Come vedremo, nel 1948 queste ultime informazioni alimentarono le peggiori atrocità nei villaggi portando a esecuzioni di massa e torture.” (Pappé, Ilan. La pulizia etnica della Palestina (p.43). Fazi Editore. Edizione del Kindle.)
Al lavoro sul campo lavorarono membri dell’Haganà. Uno di questi si chiamava Moshe Pasternak, il quale “molti anni dopo ricordava: (Pappé, Ilan. La pulizia etnica della Palestina (p.43). Fazi Editore. Edizione del Kindle.)


Dopo il 1943, la direzione di questa lavoro di schedatura venne affidata a “Ezra Danin, che avrebbe svolto un ruolo primario nella pulizia etnica della Palestina54.” (Pappé, Ilan. La pulizia etnica della Palestina (p.44). Fazi Editore. Edizione del Kindle.)
“Le schede nel periodo successivo al 1943 includevano descrizioni dettagliate dell’agricoltura, della terra coltivata, del numero di alberi nelle piantagioni, della qualità di ogni frutteto (persino di ogni singolo albero), della quantità media di terra per famiglia, del numero di automobili, dei proprietari di negozi, dei lavoratori nelle officine e dei nomi degli artigiani in ciascun villaggio e dei loro mestieri55. Più tardi, si aggiunsero meticolosi dettagli su ogni clan e le affiliazioni politiche, la stratificazione sociale tra notabili e contadini comuni, e i nomi dei funzionari del governo mandatario. E poiché la raccolta di dati creava una propria dinamica si possono trovare dettagli supplementari, che saltano fuori verso il 1945, come descrizioni delle moschee e dei villaggi con i nomi dei loro imam, insieme a espressioni tipo «è un uomo comune» e anche descrizioni precise delle stanze di soggiorno all’interno delle case di questi dignitari. Verso la fine del periodo del Mandato le informazioni diventano più esplicitamente di ordine militare: il numero di guardie (la maggior parte dei villaggi non ne aveva) e la quantità e qualità delle armi a disposizione degli abitanti (generalmente antiquate o addirittura inesistenti)56.” (Pappé, Ilan. La pulizia etnica della Palestina (p.44). Fazi Editore. Edizione del Kindle.)
L’aggiornamento definitivo delle schede sui villaggi palestinesi è del 1947: “Si concentrava nel creare liste di persone “ricercate” in ogni villaggio. Nel 1948 le truppe ebraiche usarono queste liste per le operazioni di perquisizione-arresto da effettuare non appena ne avevano occupato uno. Gli uomini venivano messi in fila e quelli il cui nome era nella lista venivano poi identificati, spesso dalla stessa persona che aveva prima dato informazioni su di loro, ma che ora indossava un sacco di tela sulla testa con due buchi per gli occhi in modo da non essere riconosciuta. Gli uomini identificati venivano spesso uccisi sul posto. I criteri per l’inclusione in queste liste erano il coinvolgimento nel movimento nazionale palestinese, l’avere stretto legami con il leader del movimento, il Mufti al-Hajj Amin al-Husayni, e, come accennato, l’aver partecipato ad «azioni contro gli inglesi e i sionisti»61. Altre ragioni per essere inclusi nelle liste erano una varietà di accuse, quali «aveva fatto viaggi in Libano» o «arrestato dalle autorità britanniche per essere stato membro di un comitato nazionale del villaggio»62.” (Pappé, Ilan. La pulizia etnica della Palestina (p.46). Fazi Editore. Edizione del Kindle.)
Rileva Pappè che fu questa conoscenza minuta e dettagliata di ciò che accadeva in ogni singolo villaggio palestinese a consentire al comando militare sionista nel novembre del 1947 di concludere che «gli arabi palestinesi non avevano nessuno che li organizzasse adeguatamente». L’unico problema serio erano gli inglesi: «Se non fosse stato per gli inglesi, avremmo potuto domare la rivolta araba [l’opposizione alla Risoluzione di spartizione dell’ONU del 1947] nel giro di un mese»64. (Pappé, Ilan. La pulizia etnica della Palestina (p.47). Fazi Editore. Edizione del Kindle.)
L’unico vero ostacolo al piano sionista era dunque l’Inghilterra, e in secondo luogo la comunità internazionale. Infatti, soprattutto dopo la dura repressione inglese della rivolta del 1936 – 37, i palestinesi mancavano di una leadership in grado di organizzare una efficace resistenza militare, e più in generale una difesa armata della propria comunità.
Inoltre, non dimentichiamo che l’insediamento ebraico in Palestina era stato ufficialmente patrocinato dallo stesso governo inglese, con la famosa dichiarazione Balfour del 1917. Ecco il testo:
“2 novembre 1917
Egregio Lord Rothschild,
È mio piacere fornirle, in nome del governo di Sua Maestà, la seguente dichiarazione di simpatia per le aspirazioni dell’ebraismo sionista che è stata presentata, e approvata, dal governo.
“Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni”. Le sarò grato se vorrà portare questa dichiarazione a conoscenza della federazione sionista.
Con sinceri saluti
Arthur James Balfour

Nel 1917, la Prima guerra mondiale era in una fase di svolta. La bilancia della forza si stava inclinando a vantaggio degli anglo – francesi, e già si profilava la disfatta degli Imperi centrali (Austria – Ungheria e Germania), a fianco dei quali era entrato in guerra il declinante Impero ottomano, del quale faceva parte la Palestina, contro inglesi e francesi.
Nel dicembre 1917, le truppe inglesi entrarono a Gerusalemme, dopo avere sconfitto le truppe ottomane. Dai tempi della Caduta del Regno cristiano di Gerusalemme (1291), creato dopo la Prima crociata del 1099, era la prima volta che Gerusalemme e la Palestina tornavano sotto il comando di una potenza europea. Infatti la Palestina fu affidata dalla Società delle Nazioni all’amministrazione provvisoria inglese (Mandato inglese sulla Palestina), in cui venne incorporata la dichiarazione Balfour, contro ogni logica, e in palese contraddizione con il principio wilsoniano di autodeterminazione dei popoli.
Tra l’altro, la formula giuridica del mandato evidenziava che l’amministrazione inglese non era più di tipo coloniale, ma avrebbe dovuto creare le condizioni per il futuro autogoverno della regione amministrata.
La dichiarazione Balfour inaugura la stagione novecentesca dei doppi e tripli standard: si dichiara solennemente un principio (autodeterminazione di popoli) per violarlo clamorosamente secondo le convenienze e le opportunità delle grandi potenze europee.
Che cosa vuole dire infatti che “il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico”, prima ancora che il suddetto governo mettesse piedi in questo territorio, se non il totale spregio per “i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina”, come i fatti s’incaricheranno di provare?
Focolare ebraico significa “Stato”, né più né meno. Come si fa a vedere con favore la creazione di uno Stato ebraico nella terra che apparteneva alla comunità non ebraica autoctona dei palestinesi, se non in base a una logica meramente coloniale, e conquistatrice?
Faccio rammentare che alla Conferenza di pace di Parigi del 1918, all’Italia non venne riconosciuta l’annessione della Dalmazia (che le era stata promessa dagli alleati inglesi con il Patto di Londra del 1915), per il fatto che non era etnicamente italiana, ma slava, conformemente al principio wilsoniano di autodeterminazione dei popoli! Allo stesso modo, a molte nazioni europee vennero riconosciute le rivendicazioni di indipendenza in base al principio “un popolo, un territorio, uno Stato”!
Solo a un pazzo sarebbe venuto in mente di dare un territorio a un popolo europeo facendolo insediare nel territorio di un altro popolo europeo per crearvi un proprio Stato a scapito degli autoctoni.
Ma questo buon senso etico – politico venne smarrito dagli inglesi, perché gestirono il mandato sulla Palestina secondo una logica coloniale e conquistatrice, che nega ai conquistati ogni diritto (“Guai ai vinti!).
Era un modus operandi che ha caratterizzato l’età del colonialismo e dell’imperialismo europeo tra Ottocento e Novecento. Era con il diritto della forza che ci si faceva spazio nei territori delle colonie, e si creavano insediamenti: espellendo le popolazioni locali, oppure sterminandole.
Un analogo silenzio sui residenti palestinesi, e su che cosa farsene, una volta emigrati in massa nelle Terra promessa, si riscontra nel testo, che è all’origine del sionismo contemporaneo: “Lo Stato ebraico. Tentativo di una soluzione moderna del problema ebraico”, dell’ebreo ungherese Teodoro Herzl (1896).
Il problema, cui allude Herzl, era l’antisemitismo endemico in Europa, di cui sarebbe interessante parlare, ma che prendiamo come un dato di fatto. La soluzione che propone il sionismo nascente, nella persona di T. Herzl, è dare agli ebrei una terra, dove emigrare, e formare un proprio Stato. Tra le varie opzioni: un territorio d’oltremare spopolato, in America o in Africa, e il ritorno nella terra dei padri (Palestina), la scelta cade su quest’ultima.
Esistono due soli problemi da risolvere, secondo Herzl: convincere uno Stato a sponsorizzare l’emigrazione – colonizzazione ebraica, e organizzarla in modo efficiente con metodo scientifico e imprenditoriale.


Quali sono i vantaggi della Palestina, secondo Herzl?
“La Palestina è la nostra patria storica, indimenticabile. Questo nome sarebbe da solo un richiamo di grande potenza per il nostro popolo. Se Sua Maestà il Sultano ci desse la Palestina, ci potremmo in cambio impegnare a sistemar completamente le finanze della Turchia; per l’Europa rappresenteremmo colà un pezzo del vallo contro l’Asia, copriremmo l’ufficio di avamposti della civiltà contro la barbarie […]: noi saremmo la guardia d’onore dei luoghi santi e risponderemmo colla nostra esistenza all’adempimento di un simile dovere.”
Alla data del 1896, la Palestina era ancora parte dell’Impero ottomano, ormai in declino, incapace di reagire efficacemente alle mire occidentali modernizzando i suoi apparati, anche se importanti riforme ci furono eccome, in senso occidentalizzante, ma soprattutto dopo quella data.
Nel rivolgersi a “Sua Maestà il Sultano”, è evidente l’implicito presupposto che essendo il potere del Sultano dispotico, avrebbe potuto disporre ad arbitrio delle sue terre e dei suoi sudditi, se lo avesse trovato conveniente! Quindi avrebbe potuto “dare loro” (ai sionisti) le terre della Palestina! Degno di ogni rilievo è che non si fa alcun cenno agli abitanti di questa terra, ai loro diritto, e alla sorte che la sventura avrebbe riservato loro! L’altro presupposto, ancora più sordido, è che con il denaro si compra tutto, soprattutto se si fa un po’ di pressione economica a un Paese indebitato con l’estero!
(Secondo alcuni, gli USA avrebbero promesso all’Egitto di azzerargli il debito, se si prende gli abitanti di Gaza, per sempre! Ma né il Sultano a quei tempi né oggi il presidente dell’Egitto Al-Sisi hanno ceduto all’ignobile proposta!)
Ovviamente, la situazione cambiò radicalmente, quando gli inglesi conquistarono Gerusalemme nel dicembre 1917, con il che i sionisti trovarono ufficialmente uno sponsor per attuare i loro piani. Tutto è andato secondo la profezia di Herzl: fondamentalmente, Israele sarebbe stato “per l’Europa […] un pezzo del vallo contro l’Asia, […] l’ufficio di avamposti della civiltà contro la barbarie […]: noi saremmo la guardia d’onore dei luoghi santi e risponderemmo colla nostra esistenza all’adempimento di un simile dovere.”
Insomma, non si dice oggi la stessa cosa, quando si sottolinea che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente?
Ricapitolando, l’emigrazione ebraica dall’Europa verso la Palestina, tra Ottocento e Novecento, soprattutto dopo la nascita del sionismo con il libro di Herzl “Lo Stato ebraico” (1896), e dopo la conseguente fondazione del Movimento sionista mondiale (1897) e del Fondo nazionale ebraico (1901), rientrava nel più generale fenomeno della migrazione europea nei territori africani e asiatici ormai sottoposti all’egemonia ora diretta ora indiretta dell’Europa. Una migrazione che per lo più aveva ragioni economiche, ma che nel caso degli ebrei aveva come motivazione specifica l’antisemitismo, profondamente radicato in tutta Europa.
L’anomalia dell’emigrazione ebraica risiedeva nel fatto che aveva un progetto politico alle spalle, già delineato da Herzl e adottato dal Movimento sionista mondiale, che era quello di concepire l’emigrazione come il primo passo verso la creazione di uno Stato d’Israele. Dunque, non vi era nulla di innocente. Tutto quel piano, così meticolosamente organizzato e finanziato dai banchieri ebraici, di insediamento in Palestina, era soltanto un cavallo di Trioia, dal cui ventre sarebbero un giorno usciti i miliziani di Haganà per espellere i palestinesi e fondare lo Stato ebraico. La prima reazione palestinese si concretizza nella rivolta del 1929, e nella “grande rivolta” del 1936 – 39, ferocemente repressa dagli inglesi, che secondo quanto previsto dalla Dichiarazione Balfour avevano agevolato l’emigrazione ebraica, e consentito che questa si organizzasse non soltanto da un punto di vista economico- sociale e civile, ma anche politico e militare.
Alla fine della Seconda guerra mondiale, i tempi erano maturi per passare all’attuazione della terza e decisiva fase del progetto di creazione di uno Stato ebraico, delineato da Herzl.
Nella prima fase, nella cornice legale del Mandato britannico sulla Palestina, gli ebrei avevano comprato terre, costruito case e villaggi agricoli (kibbutz), e fondato una città (Tel Aviv), avviato e organizzato attività economiche, un po’ come facevano i pionieri in America, e in altri paesi extraeuropei, non senza poter evitare lo scontro con gli autoctoni.
Nella seconda fase, grazie al beneplacito inglese, la comunità ebraica di Palestina si dotò di un organo politico amministrativo di autogoverno, vale a dire l’Agenzia ebraica, e di un esercito clandestino (Haganà).
Nella terza fase, dopo il ritiro britannico dalla Palestina (1947), l’Agenzia ebraica diventò un governo, e l’Haganà l’esercito dell’autoproclamato Stato di Israele.

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Carletto Romeo