Il sacrificio tra storia e attualità

L’insieme dei significati del termine forma una costellazione di accezioni collegate da un filo rosso.

Il sacrificio tra storia e attualità


Ma che cosa è il sacrificio? L’insieme dei significati del termine forma una costellazione estesa di accezioni distinte, ma collegate da un filo rosso.

Semanticamente corretto, è l’uso che facciamo del concetto di “sacrificio” in innumerevoli espressioni: sacrificarsi per il lavoro, per la famiglia, per la comunità; oppure, sacrificarsi per la persona amata, per l’amore del prossimo, per la patria in guerra; oppure ancora, sacrificarsi per Dio, per un ideale di giustizia, di libertà; eccetera.

Ciò che accomuna tutte queste eccezioni del termine “sacrificio”, è il nesso “dialettico” che inevitabilmente rimanda dal singolo alla comunità, dal cittadino allo Stato, dall’individuo alla specie, dal particolare all’universale.

Il sacrificio si configura pertanto come una certa dose di annientamento del proprio “sé” egoistico, che può giungere fino al supremo sacrificio della morte, attraverso il quale si manifesta il carattere finito e transitorio dell’esistenza, e la sua subordinazione al “contesto” dal quale scaturisce e dipende.

Fin da quando l’uomo ha cominciato a uccidere per vivere, nel lontano Paleolitico, ha infatti preso coscienza “colpevolmente” del nesso misterioso che lega la vita alla morte: gioiva, per la preda catturata, uccisa, spartita tra i membri del gruppo; ma al contempo era morso da un senso di colpa angoscioso per la morte arrecata all’animale.

Nel nesso inscindibile, dove la morte arrecata “dava” la vita al gruppo, possiamo cogliere il modello originario del sacrificio rituale, secondo l’antropologo tedesco Walter Burkert.

Nel saggio “Homo necans” del 1972, egli propone infatti un’interpretazione del sacrificio nelle religioni primitive e antiche come una ritualizzazione della pratica della caccia, in cui la morte dell’animale innocente per mano dell’uomo diventa un mistero sacro, che sta a fondamento della società umana.

E’ evidente come il significato di sacrificio nei contesti laici e profani, è direttamente riconducibile al suo significato originario, sacro e religioso.

Questa matrice religiosa, diventa ancora più chiara, se ci soffermiamo un attimo sulle civiltà che hanno praticato i sacrifici umani, come quella azteca.

Centinaia o migliaia di uomini all’anno, perlopiù prigionieri catturati in guerra, venivano sacrificati agli dei sulla sommità delle piramidi del Messico, per preservare l’ordine del cosmo, e dunque della società. Come l’animale sacrificato dà la vita al gruppo, così gli uomini sacrificati agli dei preservano l’ordine e l’equilibrio dell’universo.

Successivamente, con l’avvento delle religioni rivelate, l’ordine sacro si è rivelato attraverso il Libro, le Scritture. Qui il sacrificio assume un nuovo significato di sottomissione, obbedienza alle prescrizioni, all’ordinamento dato da Dio.

Sacrificarsi significa allora sottomettersi, conformarsi, rinunciare alle tentazioni egoistiche di trasgredire la parola di Dio. Il sacrificio è questo atto di dedizione e abnegazione, ma è anche il rito espiatorio con cui ci si riconcilia quando si trasgredisce.

Il sacrificio supremo diventa quello del martire, che testimonia la verità fino alla morte. In questo modo, ritorna il sacrificio umano degli aztechi, e di altri popoli antichi, sia pure in un’altra variante.

Potrebbe sembrare un atto barbaro, se non cogliamo il collegamento del sacrificarsi a Dio o alle Divinità con altre moderne e ormai laicizzate forme del sacrificio.

Il sacrificarsi in guerra per la patria, o combattendo per ideali quali la libertà o la giustizia, sono varianti moderne e laiche del martirio per Dio, o dei sacrifici umani antichi.

La Patria o idee astratte come la Libertà o la Giustizia prendono il posto di Dio, esigono dall’individuo dedizione e abnegazione fino alla rinuncia estrema.

Perfino la libertà, che parrebbe emancipare l’individuo dalle logiche sacrificali, ritagliare uno spazio di autoaffermazione, in quanto Ideale da realizzare o preservare richiama l’individuo all’ineludibilità del sacrificio, e della morte.

Anche le altre espressioni riportate sopra, in cui ricorre la parola sacrificio: “sacrificarsi per la famiglia, per il lavoro, e così via, sono riconducibili al significato religioso originario, in quanto richiedono comunque all’individuo di rinunciare a qualcosa del “sé egoistico”, e quindi metaforicamente di “morire”, in nome di un valore superiore che lo sovrasta.

Accenno soltanto al fatto che anche la Tecnica ha a sua volta assunto la connotazione di un idolo al quale facciamo sacrifici, nella misura in cui riteniamo accettabili i rischi e i danni che comporta in rapporto ai benefici che arreca.

Neanche badiamo – tanto per fare un esempio – al costo umano (sacrificio) che paghiamo per spostarci velocemente da un posto all’altro in auto, treno o aereo: sono le persone che ogni anno muoiono per godere di questa comodità nonché utilità. Oppure ai vincoli (sacrifici) che gli apparati tecnici, industriali e burocratici pongono alla nostra vita, avvilendola o facendola ammalare.

Soprattutto dopo la Seconda Guerra mondiale, l’Occidente ha ritenuto di potere sbarazzarsi delle forme tradizionali del sacrificio.

Non era stato forse il culto sacrificale della Patria e dell’Autorità, una delle radici della tragedia delle due Guerre? Milioni di uomini avevano obbedito ai loro Capi, in nome della grandezza e della potenza della Patria, che si è rivelata essere un grembo cimiteriale per milioni e milioni dei suoi figli.

Si afferma allora un’ideologia individualistica, che congeda gradualmente ma molto velocemente l’uomo occidentale dai tre cardini della sua civiltà: Dio, Patria, Famiglia, la quale viene giudicata e in qualche modo condannata come il nucleo della struttura autoritaria della società.

Si afferma altresì un’ideologia pacifista, che è uno dei cardini della nostra Costituzione, che all’art. 11 recita che “L’Italia ripudia la guerra”, il che porterà all’approvazione delle leggi sull’obiezione di coscienza, a partire da quella del 15 dicembre 1972, n. 772, che esenta dall’obbligo militare e dunque dalla guerra coloro che “dichiarino di essere contrari in ogni circostanza all’uso personale delle armi per imprescindibili motivi di coscienza […] I motivi di coscienza addotti debbono essere attinenti ad una concezione generale della vita basata su profondi convincimenti religiosi o filosofici o morali professati dal soggetto”(art. 1).

Nessuno dovrà più essere immolato sull’altare della guerra e della Patria: un imperativo morale antisacrificale che risuonerà in slogan tipici del Sessantotto quali “Fate l’amore, non la guerra”, “Mettere dei fiori nei vostri cannoni”, e così via.

In senso antisacrificale agiscono altre due leggi sull’obiezione di coscienza in campo medico – sanitario: la legge 22 maggio 1978, n.194, che esonera il medico obiettore dal praticare a una paziente l’interruzione volontaria di gravidanza; e la legge del 12 ottobre 1993, n.413, che esonera dalla partecipazione alla sperimentazione animale in ambito medico – scientifico.

Per completare il quadro di questo ripudio del sacrificio, dobbiamo aggiungere la legge Fortuna- Baslini n.898, sul divorzio, che farà della famiglia, insieme ad altri fattori, un luogo di legami deboli, scioglibili a piacere dai contraenti.

La fuga dal sacrificio ha avuto i suoi costi nei processi di disgregazione che hanno travolto la famiglia e le comunità. Non è infatti possibile congedarsi del tutto dal sacrificio: una certa dose di annientamento del “sé” egoistico è sempre necessaria per il funzionamento della società e la vitalità dei vincoli che legano gli individui nelle varie comunità, a partire dalla famiglia.

Ma che cosa è successo, quando è arrivata l’epidemia, che ha risvegliato gli assopiti fantasmi sacrificali della morte di massa?

Da una parte – come accennavo – il fantasma isterico della morte di massa: il virus come idolo assetato di sacrifici umani, che ha atterrito la maggior parte di noi, grazie al fondamentale contributo delle grancasse mediatiche.

Dall’altra, il richiamo all’ordine, al sacrificio del singolo per il bene della collettività, al quale la stragrande maggioranza di noi ha risposto positivamente più per il terrore ispirato dal virus, che per spirito di abnegazione.

A un certo punto il principale sacrificio richiesto all’individuo per il bene di tutti, è stato quello di vaccinarsi. E’ qui che le ambivalenze emotive hanno rotto gli argini.

Mentre infatti la maggioranza dei cittadini ha ritenuto lieve questo sacrifico, perché dava per scontato che il vaccino non potesse essere nuocere, soprattutto alla luce dei benefici; una minoranza ha invece focalizzato la sua attenzione su non del tutto inverosimili rischi gravi per la salute e perfino la vita, che poteva derivare dall’inoculazione, a carico di una percentuale minima ma comunque significativa di vaccinati in termini numerici, se non percentuali.

Ora se i dubbi sono fondati, e anche i media ufficiali hanno cominciato a fare qualche ammissione, alla luce di dati che sono inoppugnabili, anche se minimizzati, su quale base lo Stato chiede e impone il sacrificio?

Non di certo sulla base del consenso dell’opinione pubblica, altrimenti non si spiega l’oscuramento accurato di tutte le notizie che possano destare allarme. Ma neanche sulla base della Costituzione e delle leggi, che hanno recepito in modo sostanziale lo spirito antisacrificale della società moderna, come abbiamo visto.

A conferma di questo rigetto del sacrificio, richiamo soltanto la sentenza della Corte costituzionale 118/1996, che afferma che “[…] nessuno può essere semplicemente chiamato a sacrificare la propria salute a quella degli altri, fossero pure tutti gli altri”.

Ribadita successivamente (107/2012): “l’eventuale obbligo non postula il sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri”.

E’ questa la fondamentale contraddizione della politica sanitaria del governo italiano, in via di principio: si richiede l’eventuale, seppure poco probabile, sacrificio della vita al cittadino, ma senza potere affermarlo a chiare lettere, e condannando alla “damnatio memoriae” le vittime reali dell’inoculazione, che ufficialmente non “devono” esistere, delle quali è ancora tabù parlarne apertamente in pubblico: pena il fallimento di tutto l’impianto governativo di contrasto al Covid-19.


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Carletto Romeo