Il Mondo in Guerra. Perché?

Il Mondo in Guerra. Perché? L'Interpretazione di John J. Mearsheimer. Per "Lo Spunto Letterario" di Gaetano Riggio

Lo Spunto Letterario
di Gaetano Riggio


Il Mondo in Guerra. Perché? L’Interpretazione di John J. Mearsheimer

Quando ci capita di porci questo interrogativo in modo esplicito – e il giro di boa tra il vecchio e il nuovo anno, è un momento che può indurci a tentativi di riflessioni di ampie vedute su questo tema -, l’angoscia si accompagna sempre all’impotenza nel tarpare le ali al naturale desiderio di conoscere e comprendere.
Quali strumenti infatti abbiamo noi per abbozzare una risposta accettabile, in grado di fare breccia nella opacità che avvolge il groviglio intricato dei fenomeni sociali, così da farci un’idea meno confusa e meno vaga su quello che sta accadendo intorno a noi?
È inevitabile rivolgersi allora a quei luoghi istituzionali (università, centri di ricerca), dove convergono dati, elaborazioni di dati, conoscenze e interpretazioni stratificate nel tempo e nello spazio, e dove i maggiori studiosi lavorano insieme per cercare di capire, nella migliore approssimazione possibile, “come va il mondo” e “dove va”!
John J. Mearsheimer, americano, è uno di questi, autore, tra l’altro, de “La grande illusione: perché la democrazia liberale non può cambiare il mondo”, uscita in Italia nel 2019 presso Luiss University Press, e aggiornata alla luce degli ultimi eventi.

Il “modus operandi” di Mearsheimer, che dalla “sua cattedra all’università di Chicago […] ha contribuito in modo incisivo al dibattito accademico e politico americano negli ultimi 40 anni”, è quello tipico del pensiero scientifico: ricondurre la molteplicità apparentemente caotica dei fenomeni a un minimo comune denominatore, vale a dire a un fattore esplicativo comune in grado di spiegarli.
Nella fattispecie, il fattore esplicativo in grado di fare luce sulla attuale “guerra mondiale a pezzi” (secondo la nota affermazione di papa Francesco) sarebbe, secondo lui, l’utopia occidentale e soprattutto statunitense di esportare la democrazia liberale nel mondo, in quanto sistema universale valido per tutti, il più idoneo a realizzare la dignità e le aspirazioni di ogni essere umano, e relazioni pacifiche tra i popoli.
Come ricostruisce Mearsheimer, dopo la caduta del muro di Berlino (1989), e soprattutto in seguito alla dissoluzione dell’Unione sovietica (1991), gli Stati Uniti, assurti al rango di “unica” potenza egemone nel mondo, hanno ritenuto – anche in risposta al fondamentalismo islamico di Al Qaeda, che ha sfidato il sistema dei valori occidentali nella sua roccaforte, colpendo “la città sulla collina” con l’attacco dell’11 settembre 2001 – che fosse giunto il momento storico e “messianico” del trionfo definitivo della civiltà occidentale, dei diritti umani, della democrazia e del liberalismo, sugli arcaismi dei sistemi sociali dispotici, e sulle tirannie conseguenti che ancora affliggono alcune parti del mondo.
Fu George Bush a intraprendere questa guerra santa, questa vera crociata per il trionfo della democrazia nel mondo, sull’onda dell’emergenza e dello stato di eccezione che l’attentato alle Torri Gemelle (11 settembre 2001) gli hanno consentito, di fatto, di dichiarare:

“La dottrina Bush, formulata nel 2002 e usata per giustificare l’invasione dell’Iraq nel marzo 2003, è probabilmente l’esempio più lampante di questo interventismo liberale. All’indomani degli attacchi terroristici dell’11 settembre, l’amministrazione Bush ha stabilito che per vincere la cosiddetta ‘guerra al terrorismo’, doveva non solo sconfiggere al Qaeda ma anche affrontare l’Iran, l’Iraq e la Siria. I regimi degli ‘Stati canaglia’ si consideravano strettamente legati a organizzazioni terroristiche come al-Qaeda e decisi a sviluppare o ad acquistare armi nucleari che avrebbero poi potuto mettere in mano ai terroristi. Insomma, erano nemici mortali degli Stati Uniti. Bush proponeva di usare la forza militare per trasformare quei paesi e altri di tutto il Medio Oriente in democrazie liberali.
Lo disse sinteticamente all’inizio del 2003, poco prima che gli Stati Uniti attaccassero l’Iraq: “Con la determinazione e l’impegno dell’America, dei nostri amici e dei nostri alleati, faremo di quest’epoca un’era di progresso e di libertà. Popoli liberi determineranno il corso della storia, e popoli liberi manterranno la pace nel mondo”. (Poco importa, che le armi di distruzione di massa fossero un mero effetto illusionistico della propaganda della macchina da guerra in allestimento, così come i legami con il terrorismo: occorrevano i giusti pretesti per ottenere il consenso dell’opinione pubblica.)
Ma si sa che, come le persone così i popoli – e i popoli in modo particolare – non sono propensi a cambiare abitudini, credenze e stili di vita collettivi tanto facilmente, soprattutto se chi propone un modello alternativo (presunto) migliore pretende di imporlo a suon di bombe, e piegando la resistenza degli educandi (e delle educande) con massacri e distruzioni.
Dunque la missione di democratizzare il mondo si è subito rivelata assai piú ardua del previsto, perché si è scontrata con la resistenza dei popoli che si pretendeva di rieducare con il dono dei diritti umani, e altre amenità di casa nostra.
Inoltre, non è affatto facile cambiare una società, assai diversa dalle nostre, dalle fondamenta: si tratta di un’operazione di ingegneria sociale ai limiti delle possibilità umane, per lo più condannata al fallimento, e dai costi altissimi.
Il risultato di questa serie di guerre mal riuscite è stato di fatto catastrofico: i paesi investiti dal nostro zelo filantropico non sono affatto diventati delle democrazie liberali, ma Stati falliti, luoghi di sofferenza, precarietà e morte per i civili, ed epicentri di una pericolosa instabilità, dove trova terreno propizio il terrorismo e dove le maggiori potenze si scontrano appoggiando ora l’una ora l’altra delle fazioni in lotta tra loro.
Qui l’eterogenesi dei fini ha raggiunto il culmine del paradosso, come dimostra il caso della Siria. Volendo infatti USA, e UE sbarazzarsi del tiranno siriano Bashar al Assad a tutti i costi, come premessa per una Siria democratica e libera, non solo hanno finanziato la distruzione di tutto il paese e il massacro del suo popolo, ma alla fine (nei primi giorni di dicembre del 2024) sono riusciti a rovesciare Assad solo al prezzo altissimo e turpe di appoggiare un terrorista affiliato ad Al Qaeda, e poi all’Isis, sul quale pendeva fino all’altro ieri una taglia di 10 milioni di dollari da parte degli Stati Uniti! (Mi riferisco ad Al – Jolani, leader del gruppo terroristico Hayat Tahrir al – Sham, legato a Isis e al – Qaeda, che ha appena preso il potere in Siria.)

Ma ci pensiamo? Un nemico mortale della democrazia liberale americana rovescia il tiranno Assad con l’aiuto della stessa America, e l’Occidente festeggia l’evento come se fosse un suo trionfo! Si può immaginare un fallimento peggiore?
Ma il pericolo maggiore per la pace nel mondo si è andato profilando in modo sempre più netto, soprattutto da quando la Russia, superata la crisi drammatica successiva alla caduta dell’Unione Sovietica, sotto la guida di Vladimir Putin a partire dal 2000, ha lasciato intendere chiaramente, agli Stati Uniti, alla Nato e all’Ue, che non avrebbe più tollerato passivamente il loro unipolarismo proteso all’espansione della democrazia liberale, e che soprattutto non avrebbe permesso loro di cooptare l’Ucraina nel novero delle democrazie liberali, sottraendola alla tradizionale collocazione nell’area di influenza russa e ortodossa, alla quale era appartenuta dai tempi più remoti.
Con il passare degli anni il confronto con la Russia si è fatto così sempre più duro e teso, assumendo la forma di una contrapposizione ideologica, dal nostro punto di vista, tra democrazia e autocrazia.
Come fa notare Mearsheimer, l’universalismo occidentale, che ritiene di detenere il monopolio dei valori etici e giuridici valevoli per tutta l’umanità, presenta purtroppo l’inconveniente di demonizzare l’avversario (gli altri sono “Stati – canaglia”, o fanno parte dell’ ”asse del male”!), con la conseguenza che la stessa diplomazia diventa impossibile, perché con il male non sono possibili né il compromesso né le trattative. (Ricordo a questo proposito un’esternazione di Biden, di qualche anno fa, che riferendosi a Vladimir Putin disse che è “un killer”!)
Dunque, neanche in Ucraina l’esportazione della democrazia liberale è stata un compito facile: per staccare infatti l’Ucraina dalla Russia, gli Stati Uniti hanno finito per appoggiare il nazionalismo più truce, storicamente compromesso con il nazismo, facendo emergere una linea di faglia che correva lungo il confine con le aree russofone (Crimea, Donbass) della stessa Ucraina, il che ha condotto alla guerra civile e poi all’intervento russo, ancora in corso.
Checché se ne dica, soltanto l’Ucraina occidentale si è fatta sedurre dall’Occidente, mentre il Donbass e la Crimea, che hanno radici storiche e culturali forti che li legano alla civiltà russa e ortodossa, hanno scelto di stare con Putin.
Se dunque con Bush inizia il periodo storico in cui l’America, ormai potenza egemone a livello mondiale, intraprende una serie di sette guerre per portare a compimento il trionfo della democrazia liberale nel mondo, e dunque della pace tra i popoli che ne sarebbe seguita (almeno secondo le intenzioni e i pii propositi), il fallimento di queste guerre e l’emergenza della Cina come grande potenza (la più formidabile tra le “non democrazie liberali”!) in intesa con le altre “non – democrazie” (Russia, Iran, Corea del Nord), determinate a contrastare il progetto egemonico americano dal quale erano direttamente minacciate, ha portato con sé il rischio di trasformare la marcia trionfante della democrazia liberale in un confronto titanico globale, e in una guerra mondiale vera e propria tra Occidente e Resto del Mondo.

Qui vanno fatte ulteriori considerazioni. L’autocompiacimento narcisistico dell’Occidente per la sua superiorità, con la sua demonizzazione dell’ “Altro”, ha ormai finito per assumere connotazioni razziste e chiaramente islamofobe.
È proprio questo razzismo inconscio, come suggeriscono altri studiosi, che spiega l’accondiscendenza occidentale verso i crimini di Israele e il genocidio del popolo palestinese. Nel progetto di trasformazione del Medio Oriente messo a punto da G. Bush, Israele (celebrata come l’unica democrazia dell’Asia occidentale) avrebbe infatti giocato un ruolo fondamentale, a tutto interesse dello stesso Stato di Israele, che si sarebbe potuto sbarazzare dei suoi nemici storici, e fare fallire definitivamente le aspirazioni palestinesi a un proprio Stato conducendo una guerra di sterminio contro Hamas e il popolo di cui era espressione e braccio armato giudicati e condannati come terroristi da espellere e uccidere senza pietà.
È questo, secondo Mearsheimer, il paradosso della democrazia liberale americana, divenuta potenza egemone globale nel 1991: per sua natura e missione, non porta la pace, ma la guerra:

“Ma per democratizzare il pianeta, sostiene Mearsheimer, secondo l’approccio americano, ci vogliono molte guerre. Gli Stati liberali tendono infatti ad avere una profonda intolleranza che nega la possibilità di veri rapporti diplomatici e di guerre limitate con nemici illiberali. E allora, come osserva R.H.Tawney, “la guerra è un crimine o una crociata. Non c’è posizione intermedia” per i liberali. La superpotenza liberale finisce per assuefarsi troppo facilmente alla guerra, soprattutto in una situazione internazionale di incontrastata leadership. ‘Una grande democrazia liberale che si ritrova in una condizione unipolare perseguirà pressoché automaticamente l’egemonia liberale, quantomeno all’inizio, perché l’idea di rifare il mondo a propria immagine e somiglianza è iscritta nel suo DNA e i costi sembrano gestibili’. Ciò che ancora di più inquieta è che tale crociata progressista viene affrontata con incessante zelo missionario. Gli USA hanno scatenato 7 conflitti dalla fine della guerra fredda e sono continuamente in guerra dal mese successivo all’11 settembre. La frequenza degli interventi armati americani nel periodo successivo alla guerra fredda (1990-2017) si è sestuplicata rispetto al periodo 1798-1989.”
Ripeto, è questa la chiave per comprendere la inumana e disumana indulgenza dell’Occidente verso il genocidio in corso da parte di Israele: la guerra è un crimine o una crociata, e noi interpretiamo le nostre guerre come crociate, come crimini quelle degli altri. Perché allora compromettere uno Stato sia pure neocoloniale (Israele), ma comunque occidentale, per fare sorgere uno Stato palestinese che potrebbe assumere connotazioni fondamentaliste o comunque antioccidentali, e dunque disfunzionali all’egemonia delle democrazie liberali nostrane?
Questo interventismo non ha naturalmente alcuna legittimazione nel diritto internazionale, e di conseguenza neppure nella Carta dell’ONU. Qui hanno ragione quanti denunciano l’illegittimità e l’illegalità delle guerre Nato, già a partire dal bombardamento di Belgrado nel 1999 (78 giorni, durante i quali vennero sganciate 2700 tonnellate di esplosivo sulla capitale serba).
Ma ormai la Nato già operava al di fuori al di sopra del diritto internazionale, in nomi di principi etici superiori propri che negavano il principio di sovranità e autodeterminazione degli Stati, sanciti dall’ONU. Già a metà degli anni Ottanta il principio di sovranità si stava intaccando:
“Ma a metà degli anni Ottanta la norma si stava già intaccando, soprattutto perché gli Stati Uniti iniziarono a interferire negli affari interni di altri paesi ancor più di quanto non facessero già in passato. Oltre ad avere un apparato militare veramente formidabile in grado di estenderne il potere in tutto il mondo, gli USA unica superpotenza – in quanto Stato liberale – avevano la motivazione necessaria per interferire nelle vicende politiche di altri paesi. La Gran Bretagna e quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale erano ansiosi di aiutare Washington a perseguire la sua ambiziosa agenda di politica estera. Il liberalismo, naturalmente, prevede implicitamente l’ingerenza nelle questioni politiche di altri paesi, quale che sia l’obiettivo – proteggere i diritti dei loro abitanti o cercare di diffondere la democrazia liberale. In poche parole, liberalismo e sovranità sono in antitesi. È un fatto praticamente incontroverso sia tra i politici che tra gli studiosi. Nell’aprile 1999, per esempio, il primo ministro britannico disse, in un celebre discorso pronunciato a Chicago: “Alla vigilia del nuovo millennio ci troviamo ormai a vivere in un nuovo mondo […]. Il maggior problema di politica estera che abbiamo di fronte è identificare i casi in cui dovremmo partecipare attivamente ai confitti altrui. Il principio di non-interferenza ha sempre avuto un ruolo importante nell’ordine internazionale. E non vogliamo abbandonarlo troppo in fretta. Uno Stato non dovrebbe ritenersi in diritto di modificare il sistema politico di un altro Stato, di fomentare la sedizione, o di impossessarsi di parti del territorio su cui ha delle pretese. Ma il principio della non-interferenza va qualificato sotto alcuni aspetti di rilievo”.
Sappiamo che le rivoluzioni colorate e i cambiamenti di regime non sono fenomeni di complottismo, ma discendono da questa dottrina, e più che la democrazia hanno esportato caos e instabilità in giro per il mondo acuendo pericolosamente la tensione internazionale e il rischio di uno scontro globale.
Di una chiarezza che non lascia adito a dubbi, a questo proposito, è un’altra affermazione di Tony Blair, di qualche anno più tardi, a invasione dell’Iraq già avvenuta, riportata dallo stesso Mearsheimer:

“Cinque anni dopo, nel marzo 2004, nel tentativo di giustificare la guerra dell’Iraq, Blair tornò a citare il suo discorso di Chicago. ‘Per quanto mi riguarda, già prima dell’11 settembre ero già alla ricerca di una filosofia delle relazioni internazionali diversa da quella che prevaleva fin dal Trattato di Vestfalia del 1648: vale a dire che gli affari interni di uno Stato sono esclusivamente di sua pertinenza, per cui non potete interferire se non vi minaccia, non viola un trattato, o non fa scattare un vincolo di alleanza’.”
Lapidario è il commento di Mearsheimer: “Con il loro potere e il loro profondo impegno per il rispetto dei principi liberali, gli Stati Uniti hanno guidato l’assalto post-guerra fredda alla sovranità. Naturalmente, però, difendono gelosamente la propria sovranità.”
Ma il rispetto della sovranità degli Stati e del principio di non interferenza nei loro affari interni, solennemente sanciti e sottoscritti da tutti gli Stati membri dell’ONU, sono alla base dell’ordine internazionale e della pacifica convivenza tra gli Stati.
La loro palese e arrogante violazione non può che produrre il caos, e uno Stato di guerra endemico, in cui di fatto l’Occidente tratta le maggiori potenze del pianeta, come la Russia e la Cina, come Stati sostanzialmente illegittimi in quanto non classificabili come democrazie liberali.
Questo è il cuore del problema, secondo l’analisi di Mearsheimer: l’Occidente ha dichiarato superato, in modo unilaterale, l’ordine internazionale westfaliano (risalente al 1648), fondato sul muto riconoscimento tra Stati sovrani e indipendenti, riservandosi il diritto – dovere di interferire negli affari interni altrui con guerre dichiarate o subdole.
Ma tutto ciò non ha finora sortito l’effetto sperato, sia per l’estrema complessità di queste operazioni di ingegneria sociale sia perché i popoli sono refrattari a farsi eterodirigere, e oppongono una resistenza per lo più insuperabile. Il risultato dunque non è maggiore libertà, ma maggiore caos, e un’avversione crescente del Resto del mondo verso l’Occidente.
Ma l’analisi di Mearsheimer rende conto di un altro grave fenomeno: un effetto collaterale dello Stato di guerra in cui l’Occidente si è cacciato per sua scelta, almeno dal 20021 in poi.
Si tratta della crisi della democrazia, delle limitazioni delle libertà civili e politiche, del clima di intolleranza e repressione del dissenso, che in modo grave affliggono le democrazie liberali occidentali:
“Il liberalismo esportato all’estero tende a indebolire il liberalismo applicato all’interno, perché una politica estera militaristica produce invariabilmente uno “Stato di polizia”, incline a violare le libertà civili dei suoi cittadini in nome della sicurezza nazionale.”
Questa erosione della libertà, d’altronde, l’abbiamo sperimentata sulla nostra pelle, da quando siamo entrati nella emergenza pandemica per poi precipitare in quella bellica, e abbiamo avuto modo di constatare come l’esercizio emergenziale del potere esecutivo sapeva farsi beffe delle garanzie costituzionali, complici i mass – media e i massimi organi giurisdizionali. Il tutto per il bene comune prima, e l’interesse nazionale poi. Ma ascoltiamo ancora Maersheimer, prima di chiudere:
“In fasi di emergenza nazionale come una guerra, i leader pensano di avere valide ragioni per soffocare le critiche alle politiche che mettono in atto, limitando la libertà di parola e la libertà di stampa. Sono atterriti all’idea di un nemico interno, che potrebbe includere cittadini sleali o stranieri. La paura serpeggia costantemente. L’atmosfera di sospetto porta invariabilmente a comprimere i diritti individuali e a monitorare i cittadini con modalità illiberali, spesso con il consenso di gran parte dell’opinione pubblica.”
L’opzione della guerra è insomma un circolo vizioso che costringe gli Stati a mentire con i cittadini, e a manipolare le informazioni, nella misura in cui menzogne e manipolazioni sono funzionali a preservare il più largo consenso possibile dell’opinione pubblica, anche se a scapito di libertà e democrazia, che pure si sarebbero volute difendere e promuovere.

Gaetano Riggio


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Carletto Romeo