“Il destino manifesto degli Stati Uniti” di Gaetano Riggio

Il Destino Manifesto degli Stati Uniti d'America

Lo Spunto Letterario
di Gaetano Riggio


“Il destino manifesto degli Stati Uniti”

La credenza in un grande destino, che a un certo punto pare palesarsi come un’evidenza a chi ansiosamente si sforza di coglierne le manifestazioni, può essere sia un fenomeno individuale che collettivo.
Nel primo caso riguarda un singolo uomo, nel secondo caso un popolo, ma in entrambi si afferma la convinzione di un rapporto privilegiato con la potenza (o le potenze) che reggono e governano l’universo.
Psicologicamente, si può interpretare come un fenomeno di narcisismo individuale o collettivo, funzionale nella misura in cui infonde la giusta fiducia di farcela; teologicamente, porta con sé la convinzione di essere stati prescelti, per la realizzazione di un compito, di una missione, affidata dalla divinità!
In questo modo l’individuo o il gruppo supera la tendenza alla mania persecutoria, secondo la quale tendiamo invece a sentirci in balia di forze oscure ed ostili, che prendendosi gioco di noi ci condannano allo scacco, o a un’esistenza grottesca.
Diventiamo invece collaboratori, o almeno esecutori di un progetto, che dispiega nella storia un piano universale! A noi interessa in questo articolo la dimensione collettiva di questa credenza.
Tralasciando la sventura, è quando la buona sorte arride a un popolo, che ben organizzandosi riesce a diventare sempre più prospero e potente, a danno di altri gruppi, stati e popoli, che la convinzione di essere ben voluti da Dio, e strumento dei suoi decreti eterni, può attecchire e mettere radici, fino a diventare ideologia, e collante potente della sua identità nazionale o imperiale.

Arrivato a questo punto, un popolo si può sentire in dovere di imporre il suo ordine a tutti gli altri, in quanto ordine giusto per decreto divino, anche se il cammino che porta alla piena realizzazione di questo obiettivo può essere lungo e tortuoso, e costare sofferenze enormi.
Dal punto di vista di un popolo che si sente predestinato, però, interpretare il processo storico come “imposizione del suo ordine agli altri”, è un travisamento, perché esso è da intendere come un ordine (l’ordine migliore delle cose umane!) in divenire, che marciando anche militarmente avanza a scapito del cattivo ordine, del disordine e del caos!
(Espresso in termini più consueti, è la classica contrapposizione della civiltà alla barbarie, in cui l’affermazione della prima a scapito della seconda implica il momento tragicamente negativo del conflitto e della morte!)
Risulta chiaro che una tale impostazione ideologica (teologico-politica) ha un effetto fortemente auto-assolutorio rispetto alle guerre che occorre intraprendere, ai popoli che opponendosi strenuamente al nuovo ordine devono essere spazzati via (annientamento, pulizia etnica), eccetera.
Vorrei, a questo riguardo, richiamare la questione del genocidio dei nativi americani nel corso dell’espansione verso Ovest della neonata Repubblica Federale degli Stati Uniti.
È sconcertante come nel libro “Ordine mondiale”, nel Cap. VII dedicato agli Stati Uniti (che ha come titolo “Agire per tutta l’umanità”), il suo autore Henry Kissinger (un “deus ex machina” della politica estera americana del Secondo Dopoguerra) neanche menzioni l’esistenza di popolazioni autoctone nei territori del Nuovo Mondo: a chi non avesse letto altro che questo saggio di H. Kissinger sulla storia degli Stati Uniti, non resterebbe che ritenere che gli insediamenti dei coloni nel Far West siano avvenuti in territori completamente disabitati!

Appunto perché egli condivide la convinzione, tipicamente americana, “che i suoi principi interni fossero con tutta evidenza universali e la loro applicazione in qualunque momento salutare; che la vera sfida dell’impegno americano al di fuori del paese fosse non la politica estera nel senso tradizionale ma un progetto di diffusione dei valori che, così essa credeva, tutti gli altri popoli aspiravano a condividere.”
Quale poteva essere l’importanza di alcuni milioni di nativi americani, suddivisi in alcune centinaia di tribù, con le loro culture primitive, al cospetto dell’universalità dei suddetti valori e della missione della loro diffusione, “in qualunque momento salutare”? Occorre rendere esplicita una risposta che appare scontata? Vale a dire, nessuna!
L’oblio dello sterminio degli Indiani d’America non è dunque una rimozione freudiana, ma soltanto una conseguenza della loro irrilevanza storica, rispetto alla missione americana di “agire per tutta l’umanità”!
Questa umanità era incarnata dagli immigrati di cultura anglosassone. La loro espansione anche violenta, l’occupazione brutale dei territori altrui, l’annientamento dei diversi, erano una sorta di “via crucis” inevitabile per l’avvento di quel mondo nuovo per il quale la Provvidenza aveva dato mandato alla Nuova Nazione!

L’omissione di Kissinger non è dunque da imputare a malafede, o a disonestà intellettuale. Se è comunque cinica, lo è soltanto come conseguenza indiretta di una ideologia, di cui egli è stato attivo portatore e diretto esecutore.
Questa ideologia è prefigurata in epoca coloniale in un testo del 1630 dal teologo John Whintrop, “A Model of Christian Charity”, scritto durante il viaggio dall’Inghilterra alla colonia del Massachusetts, nel quale esortava i coloni a fondare “a City upon a Hill”, dedita a fare la volontà di Dio:

“Saremo una città sulla collina. Gli occhi di tutte le persone del mondo sono su di noi. Se tradiremo Dio nell’opera che abbiamo intrapreso, egli ritirerà l’aiuto che ci ha dato, diventeremo una storia da raccontare e racconto che correrà attraverso il mondo.”
Essere “una città sulla collina” significa essere città eletta da Dio, proprio come Gerusalemme, la città che sorge sul monte Sion, che Dio ha scelto attraverso un patto (testamento, covenant) per realizzare il suo piano di salvezza e redenzione.
Un altro testo fondamentale, che è alla base di quel che è stato definito “l’eccezionalismo americano”, è l’articolo di John O’Sullivan del 1845, uscito sulla rivista “Democratic Review”, in cui l’autore, nel sostenere l’annessione del Texas, a un certo punto proclama:
“our manifest destiny to overspread the continent allotted by Providence for the free development of our yearly multiplying millions” (“il nostro destino manifesto di espanderci nel continente concessoci dalla Provvidenza per il libero sviluppo dei nostri milioni di cittadini, che si moltiplicano di anno in anno”).
Il continente americano nel suo insieme è lo spazio vitale per il libero sviluppo del popolo statunitense, perché è Dio stesso che glielo ha concesso, secondo un destino e una missione che si chiariranno strada facendo.
Appare evidente il rivestimento ideologico del puro istinto della sopraffazione di un popolo a scapito di altri, la voracità di appropriarsi di nuove terre altrui, intesa come legittima perché voluta dalla Provvidenza per creare e diffondere una forma superiore di civiltà.

Il genocidio dei nativi americani nella mistica teologica (delirante, aggiungerei io) appare un sacrificio necessario, voluto dalla stessa Provvidenza, per dare un immenso spazio di espansione al suo popolo. Ecco perché Kissinger neanche li nomina, e nemmeno sospetta una contraddizione con la missione di “agire per tutta l’umanità”!
L’articolo fondamentale di John O’Sullivan del 1845 si colloca (e serve a giustificarla) negli anni della nuova fase di espansione a Ovest, ai danni del Messico, che dopo alcune guerre fu costretto a rinunciare non soltanto al Texas, ma anche alla California, eccetera.
Da precisare, però, che l’idea del continente americano come giardino di casa degli USA (che loro avrebbero dissodato e messo a coltura senza tollerare impedimenti non solo da parte dei selvaggi, ma anche delle corrotte potenze europee) era stata già solennemente proclamata dal presidente J. Monroe nel 1823, in un discorso tenuto al Congresso. Si tratta della famosa dottrina Monroe, della quale per un primo ragguaglio può bastare Wikipedia, alla voce J. Monroe.
Mi pare allora di avere a sufficienza argomentato quanto affermato sopra:
“Risulta chiaro che una tale impostazione ideologica (teologico-politica) ha un effetto fortemente auto-assolutorio rispetto alle guerre che occorre intraprendere, ai popoli che opponendosi strenuamente al nuovo ordine devono essere spazzati via (annientamento, pulizia etnica), o rieducati, eccetera.”
Prendiamo un altro momento cruciale nella storia degli Stati Uniti, quando ormai “ il destino manifesto della Provvidenza” li aveva già proiettati a livello mondiale: la guerra del Vietnam. Nessun accenno da parte di Kissinger (nel saggio già citato sopra) alle sofferenze immani sofferte dai vietnamiti, ai milioni di morti, su cui si sofferma invece lo storico Daniele Ganser, in “Breve storia dell’impero americano”:
“In qualità di comandante in capo delle forze armate statunitensi, il presidente Johnson condusse una guerra senza alcuna pietà contro il Vietnam. Su quel piccolo paese gli USA rovesciarono dal 1964 fino al 1975 il triplo delle bombe scagliate nel corso della seconda guerra mondiale su tutti i fronti.”

Aggiunge ancora, D. Ganser:
“Gli USA scaricarono sul Vietnam l’impressionante quantità di 388.000 tonnellate di napalm. I cacciabombardieri sganciavano le bombe esplosive volando a bassa quota sui villaggi nord-vietnamiti. Navi da guerra americane di dimensioni contenute percorrevano i fiumi vietnamiti, dotate di lanciafiamme al napalm con una gittata di 150 metri, con cui letteralmente cancellavano i villaggi posti lungo le rive. «Chiunque sopravvive a un attacco col napalm rimane ustionato orrendamente», scrisse «The New York Times». «Se non si interviene subito e in maniera ottimale dal punto di vista chirurgico, la vittima è destinata a morire lentamente fra dolori atroci, oppure rimarrà sfigurata per tutta la vita».”
No, tutto questo è un accidente della storia, secondo Kissinger, paragonato alla missione voluta dalla Provvidenza (“Agire per tutta l’umanità”), che in quella circostanza storica comportava per gli Stati Uniti il dovere morale, e l’imperativo strategico, di contenere il comunismo, anche se il Vietnam aveva fatto questa opzione ideologica quando combatteva contro il dominio coloniale francese ottenendo infine l’indipendenza nel 1954, dopo una lunga guerra di liberazione!
Ma la volontà dei popoli non conta, se scelgono male, se si oppongono alla pedagogia manifesta e provvidenziale di cui gli USA porterebbero il vessillo, nel qual caso può essere agevolata con la violenza, anche disumana.
D’altra parte non è affatto immediato che un popolo realizzi subito che in fondo in fondo “aspira a condividere i valori” che “la città sulla collina” è stata predestinata a diffondere così da scrivere una storia che “correrà attraverso il mondo” (Whintrop). Ecco perché la violenza purificatrice è in notevole misura inevitabile.
È vero però che Kissinger ammette e riconosce degli errori, che sono di duplice natura: primo, non è possibile realizzare la missione provvidenziale di diffondere libertà e democrazia con il mero uso delle armi, in quanto questi valori fanno molta fatica ad attecchire in un terreno non ancora predisposto ad accoglierli; secondo, non si può ignorare il dissenso e lo sdegno per i metodi brutali e disumani, in patria e all’estero, che generano sfiducia e disfattismo: non tutti infatti sono così lungimiranti (come Kissinger stesso e i suoi pari) da capire che alcuni milioni di vietnamiti massacrati (o iracheni dopo) sono un sacrificio necessario, se si “agisce per il bene dell’umanità”!
Ecco allora che la politica di contenimento del comunismo, se aveva avuto successo in Europa, riuscì fallimentare in Vietnam, secondo le stesse affermazioni di Kissinger:
“Oltre a ciò, quando la politica di contenimento si trasferì ai margini dell’Asia, incontrò condizioni del tutto opposte a quelle dell’Europa. Il Piano Marshall e la NATO avevano avuto successo perché in Europa rimaneva una tradizione politica di governo, anche se deteriorata. La ripresa economica avrebbe potuto restituire vitalità politica. Ma in gran parte del mondo sottosviluppato la struttura politica era fragile o recente, e l’aiuto economico portò corruzione altrettanto spesso che stabilità.”
In altre parole, gli Stati Uniti si ritrovarono a sostenere una dittatura corrotta (Vietnam del Sud), che non poté affatto diventare quel presidio di democrazia e libertà in grado di creare un consenso e un’alternativa credibile al Vietnam del Nord.
Afferma ancora Kissinger:
“L’America tentò di colmare la lacuna mediante una campagna di costruzione politica parallela all’impegno militare. Mentre combatteva simultaneamente una guerra convenzionale contro le divisioni nordvietnamite e una guerra nella giungla contro la guerriglia vietcong, l’America si lanciò in un tentativo di ingegneria politica in una regione che non conosceva l’autogoverno da secoli, e non aveva mai conosciuto la democrazia.”
Il Vietnam si era appena liberato da un duro dominio coloniale, dopo una guerra di liberazione sanguinosa contro la Francia, terminata nel 1954, e il tentativo di ingegneria politica degli USA non solo fu fallimentare, ma sapeva tanto di neoconialismo.
A giudicare però dall’oggi, non pare che il caso del Vietnam abbia insegnato granché alla èlite che determina la politica estera americana. Degli errori e della presunzione riconosciuti da Kissinger è costellata infatti la politica estera americana dell’ultimo mezzo secolo.
Altri tentativi di ingegneria politica arrogante e presuntuosa, culminati in un disastro, sono stati i venti anni di guerra in Afghanistan, la guerra in Iraq, in Siria, in Libia.
Molto difficilmente, l’ingegneria provvidenziale di questi ultimi decenni potrebbe giustificare le enormi sofferenze e i milioni di morti civili causati adducendo il dato dell’aumento della libertà, della giustizia: è aumentato solo il disordine mondiale, e la percezione degli Stati Uniti come potenza nemica ed ostile.
Per Kissinger, e per l’America in generale, la guerra del Vietnam rimane comunque una guerra giusta, per la diffusione dei valori universali, che gli altri popoli non possono non condividere. A essere sbagliata fu la fallimentare ingegneria politica, e il non avere saputo evitare l’enorme dissenso interno, che infine portò al ritiro.
Attualmente, viviamo una fase di drammatica proiezione aggressiva della “città sulla collina”, con la conversione della NATO da alleanza difensiva ad offensiva, e la contrapposizione sempre più guerreggiata con quegli Stati e Civiltà che non riconoscono il presunto destino manifesto degli USA a plasmare il mondo a loro immagine e somiglianza.

Gaetano Riggio


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Carletto Romeo