Carletto Romeo
Guerrier qui solo d’amor sarete
Lo Spunto Letterario
di Gaetano Riggio
Guerrier qui solo d’amor sarete (G. L., XV, 63, 8)
Ho scelto come titolo il verso 8 dell’ottava 63 del canto XV del poema epico “Gerusalemme liberata” (1581) di Torquato Tasso, che possiamo collegare al famoso motto sessantottino “fate l’amore, non la guerra” – “make love, not war”, nella versione originale inglese.
A parlare qui sono “due donzellette garrule e lascive” (G. L., XV, 58, 4), che tentano con i loro vezzi di sedurre i crociati Carlo e Ubaldo, mandati dal comandante dell’esercito cristiano Goffredo a liberare Rinaldo dalla malia amorosa della maga Armida, e a richiamarlo ai suoi doveri. Era infatti imminente l’ultima decisiva battaglia per la conquista di Gerusalemme, impossibile senza il decisivo contributo dell’eroe.
La maga Armida, nipote del mago Idraote di Damasco, e le altre due fanciulle, agiscono al servizio delle forze demoniache che sostengono “il popolo infedele” e il loro esercito. Esse hanno il compito di tenere Rinaldo e altri valorosi guerrieri cristiani lontano da Gerusalemme, nell’imminenza dell’assedio finale, usando le armi della seduzione amorosa.
Ecco allora le due donzellette tentatrici promettere ai due guerrieri in cerca di Rinaldo, che se accoglieranno il loro invito amoroso non vedranno più altro campo di battaglia che il letto: “e dolce campo di battaglia il letto / fiavi e l’erbetta morbida de’ prati.” (64, 3)
Essi infatti sono giunti alle Isole fortunate – che si trovano agli antipodi di Gerusalemme -, dove potranno disfarsi delle armi, dato che vi regna una pace obliosa di quello che accade tra gli uomini: “L’arme, che sin qui d’uopo vi foro, / potete omai depor sicuramente / e sacrarle in quest’ombra a la quiete, / ché guerrier qui solo d’amor sarete”. (63, 5-8)
Le donzellette dunque annunciano ai fortunati visitatori, con una voce “dolce e pia” che avrebbe persuaso chiunque, che sono giunti presso una “sede alma e felice”: “Questo è il porto del mondo; e qui è il ristoro / de le sue noie, e quel piacer si sente / che già sentì ne’ secoli de l’oro / l’antica e senza fren libera gente.” (63, 1 – 4)
Non è fuori luogo paragonare questo irenismo dei sensi a quello di una certa gioventù degli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, che risuona nello slogan sopra riportato “Fate l’amore, non la guerra”. Un “irenismo” sfociato nella rivoluzione sessuale, e poi anche incanalato e sfruttato nell’industria del sesso.
Ma l’ideologia che il Tasso professa nella “Gerusalemme liberata” non è più quella del dramma pastorale “Aminta”, dove aveva rievocato nostalgicamente l’età dell’oro, nella quale vigeva la legge aurea e felice “S’ei piace, ei lice”.
Il piacere dell’età dell’oro che le donzellette promettono ai due cavalieri cristiani Ubaldo e Carlo, non è un più un valore per Tasso, come accadeva nel dramma pastorale “Aminta”, ma ormai un disvalore.
Dunque, se il Tasso che ha scritto l’”Aminta” avrebbe potuto condividere il motto “Fate l’amore, non la guerra” di origine sessantottina, il Tasso autore della “Gerusalemme liberata” lo condannerebbe – sia pure non senza un tormento interiore – alla luce della contraddizione che oppone l’amore al dovere, alla “dura legge dell’onore”, una contraddizione che nell’esistenza terrena non può trovare sintesi.
Non a caso, il giardino di Armida sorge presso le Isole fortunate, che si trovano agli antipodi di Gerusalemme, in un luogo remoto dal consorzio umano, configurandosi così come meta di una fuga dalla responsabilità, come luogo di evasione e di oblio.
Infatti, quando Ubaldo e Carlo hanno finalmente la possibilità di avvicinarsi a Rinaldo rimasto da solo – dopo averlo ritrovato disteso sul grembo di Ermida che sedeva gloriosamente in mezzo a un verde prato (“va quella coppia [sono i suddetti Ubaldo e Carlo] … Ecco tra fronde e fronde il guardo inante / penetra e vede, o pargli di vedere, / vede pur certo il vago e la diletta, / ch’egli è in grembo alla donna, essa a l’erbetta”, XVI, 17) -, lo biasimano proprio per la colpevole e vile fuga dall’impegno e dalla lotta:
“Ubaldo incominciò parlando allora: ‘Va l’Asia tutta e va l’Europa in guerra: […] / Te solo, o figlio di Bertoldo, fuora / del mondo, in ozio, un breve angolo serra; / te sol de l’universo il moto nulla / move, egregio campion d’una fanciulla.” (XVI, 32)
Un rifugio reclude Rinaldo fuori dal mondo, nell’ozio dell’amore, in un asilo che prefigura l’eternità, in una vita che rifiuta la vita, mentre i compagni – gli altri uomini – hanno bisogno di lui in quella dimensione della solidarietà reciproca che procrastina l’appagamento pieno delle aspirazioni individuali. La colpa dell’amore è tutta qui.
Non assolve perciò Rinaldo il dire che fuggiva da una assurda e fanatica guerra di religione, che opponeva i cristiani aggressori agli infedeli, così come molti giovani si opponevano alla guerra del Vietnam tra gli anni Sessanta e Settanta coniando il motto “Fate l’amore, non la guerra”.
In realtà la grave riprovazione ha un significato generale, valida pure quando tacciono le armi: egli è infatti colpevole di irresponsabilità, di essersi ritirato fuori dal mondo, nel disimpegno, in una gioiosa inerzia che è abbandono e tradimento del prossimo.
La contraddizione, che ci può essere, tra dovere e amore, si ha perché l’amore è fuga nell’istante beato del godimento, è vita piena che rifiuta la vita mancante, che aspira al non – ritorno nella dimensione deprivata dell’esistenza ordinaria, che è propria anche del dovere: “Volgi”, dicea, “deh volgi” il cavaliero / a me quegli occhi onde beata bei” (XVI, 21, vv. 3 – 4): “gira gli occhi verso di me – così Rinaldo prega Armida -, perché i tuoi occhi beati danno la beatitudine”, in una salvezza che esclude tutti gli altri.
La dimensione dell’amore promette di svincolare dal tempo e dalla storia, dove sia pure metaforicamente risuonano sempre le armi, ed è dunque tentazione – e può essere arma, usabile e strumentalizzabile ad arte, subdolamente – in cui cadono valorosi cavalieri cristiani e valenti donne dello schieramento degli infedeli: Tancredi, Clorinda, Erminia, Rinaldo, che perciò vivono un lacerante e insanabile conflitto interiore tra il richiamo al legame a due dell’amore, che promette la beatitudine qui e ora, e il legame con la comunità, che richiede un atto di rinuncia e abnegazione di sé.
Lo sanno bene Ubaldo e Carlo, quando arrivano nel giardino di Ermida, dopo avere varcato i monti più impervi, e trovano “un bel tepido ciel di dolce estate” ed “aure fresche mai sempre ed odorate”, e vengono accolti da due fanciulle “ignude e belle” in riva a un fiume, le quali “or si spruzzano il volto, or fanno a gara / chi prima a un segno destinato arrive. / Si tuffano talor, e ‘l capo e ’l dorso / scoprono al fin dopo il celato corso.”
Anche loro conoscono infatti il turbamento, quando una delle due fanciulle “drizzossi, e le mammelle / e tutto ciò che più la vista alletti / mostrò, dal seno in suso, aperto al cielo; / e ‘l lago a l’altre membra era un bel velo.”
Ma sanno pure che “qui tener a fren nostro desio / ed esser cauti molto a noi conviene: / chiudiam l’orecchie al dolce canto e rio / di queste del piacer false sirene”.
Le sirene del piacere sono false, in quanto dirottano il cammino umano fuori dal tempo della storia, come se fosse giunto a compimento, sciogliendo il vincolo della solidarietà con il resto del consorzio umano, e con gli impegni che in esso hanno luogo.
Ubaldo e Carlo qui incarnano il tipo ideale dell’uomo integro, dotato di un solido baricentro interiore, in grado perciò di tenere a bada le spinte centrifughe della psiche, e dare coerenza alla personalità. Sapendo dunque resistere alle false sirene del piacere, portano a termine la loro impresa.
Rivolgono un magico scudo di diamante contro Rinaldo, il quale rispecchiandosi in esso scorge l’abiezione in cui era caduto, e dunque ritorna in sé:
“Egli al lucido scudo il guardo gira, / onde si specchia in lui […] // Tacque, e’l nobil garzon restò per poco / spazio confuso e senza moto e voce. / Ma poi che diè vergogna a sdegno loco, / sdegno guerrier de la ragion feroce, / e ch’al rossor del volto un novo foco / successe, che più avampa e che più coce, / squarciossi i vani fregi e quelle indegne / pompe, di servitù misera insegne; // ed affrettò il partire, e de la torta / confusione uscì del labirinto.”
Per concludere, torniamo al collegamento iniziale tra il verso “guerrier qui solo d’amor sarete” (1581) e il motto “fate l’amore, non la guerra” (1968).
Non c’è dubbio che una certa subcultura del Sessantotto ha finito per intendere la rivoluzione come evasione e fuga dalla realtà e dalla storia, come dimostrano altri slogan di quel periodo: “vietato vietare”, “immagina”, “la vita è altrove”, “godetevela senza freni”, così da emancipare l’uomo dalla dimensione del dovere, per vivere come “ne’ secoli de l’oro / l’antica e senza fren libera gente.”
E non c’è dubbio che oggi il piacere gode di libero corso, svincolato dal dovere, e dall’amore inteso come vincolo esclusivo di coppia, stabile e duraturo.
Ciò non vuole però dire che siamo nell’età dell’oro o che viviamo nelle comunità “messianiche” degli hippie degli anni Sessanta e Settanta.
L’evasione nel piacere, alla quale ammiccano le due donzellette che appaiono a Ubaldo e Carlo, oggi si esprime nel carattere ludico che hanno assunto i rapporti tra i sessi, ma assume anche la forma di un servizio offerto dall’industria del divertimento e dello svago, nonché del sesso.
La gamma è ampia e varia: dai classici “paradisi delle vacanze” agli “incontri occasionali” reali o virtuali, alle varie forme di intrattenimento e di spettacolo, per non parlare delle vie di fuga aperte dall’alcool e delle droghe. Ma è anche vero che si tratta di forme alienate e degradate, che hanno un carattere manipolatorio analogo a quello messo in atto da Armida, nipote del mago Idraote, quando viene inviata a domare e distogliere dalla guerra con le armi della seduzione Rinaldo e i suoi compagni.
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Pezzo interessante, pieno di spunti di riflessione. Mi permetto però di aggiungere che questo “canto delle sirene” (per dirla alla Ulisse maniera), che annebbierebbe i sensi con un richiamo ben diverso da quel motto succitato “fate l’amore, non fate la guerra”, è anch’esso stato (seppur carico di minore fervore ideologico e maggiore sessualità spicciola, nuda e cruda), minato fortemente da una pandemia mondiale. Il virus globale che ci tiene sotto scacco da più di un anno ormai, se non in tutti, ma almeno in tanti (soprattutto quelli dei “giovanili ardori”), ha spento contatti umani, erotici, intellettuali, e lo ha fatto in tanti, in troppi, annientando persino le capacità critiche sotto la grande ombra della paura, la quale è anche molto peggio di una guerra, i cui effetti su lunga distanza e larga scala verranno letti nel corso degli anni a venire. Per cui, magari si riuscisse a trovare una “Gerusalemme” da liberare oggi! Varrebbe la pena lottare (e magari anche perdersi tra voluttuose braccia e giocose esperienze corporee da perdigiorno lussuriosi).
“Fate l’amore, non abbiate paura, non abbiate più cattivi pensieri”: sarebbe un gran bello slogan di speranza, indice del fatto che saremo tornati ad avere Rapporti, seri, impegnati o “superficiali” (non importa, purché ci siano), perché l’essere umano è un essere sociale, poco adatto alla solitudine e alla mancanza di contatto fisico ed elettivo.
Grazie per l’articolo al professor Gaetano Riggio e felice degli spunti su cui è potuta nascere questa mia “amara”, mio malgrado, riflessione.
Siamo impegnati nella guerra contro il virus, che allegoricamente corrisponderebbe alla guerra per la liberazione di Gerusalemme. Ma il sacrificio non è equo e solidale, perché abbiamo tanti “Rinaldo” che se la spassano o se la passano meglio di prima: il prezzo altissimo è infatti pagato dalle vittime dell’epidemia e da quanti hanno visto crollare il loro reddito o perdere il posto di lavoro. I privilegiati e gli approfittatori dovrebbero guardarsi nello specchio di diamante di Rinaldo, per scorgere la loro abiezione!