Carletto Romeo
L’altruismo, in tempo di pandemia
L’altruismo, in tempo di pandemia
1. Egoismo e altruismo, dal punto di vista dell’etologia.
Nel linguaggio dell’etologia, si usa il termine altruismo, che designa la strategia di sopravvivenza opposta all’egoismo, invece di civismo (o termini analoghi), dal quale discendono doveri e virtù quali il senso di responsabilità, l’obbedienza all’autorità, l’agire disinteressato, l’abnegazione, il sacrificio.
Nelle specie sociali – presenti tra gli insetti, le vespe, i mammiferi, tanto per fare qualche esempio – egoismo e altruismo non si escludono, ma coesistono nello stesso individuo: si compete per accoppiarsi, ma si coopera, quando il branco fa una battuta di caccia; si compete per lo status, ma si obbedisce al capo, quando la gerarchia è stata stabilita.
Biologicamente, si è parlato di un mistero dell’altruismo, in quanto esso sembra contraddire la legge fondamentale della vita, che è quella darwiniana della lotta per la sopravvivenza individuale.
La contraddizione dipende dal fatto che la sopravvivenza è appunto individuale: è per ritagliare uno spazio vitale “per sé” che l’individuo lotta e compete “con gli altri” membri del gruppo, in modo da riprodursi con successo. Soltanto riproducendosi infatti la lotta per la sopravvivenza può dirsi vinta.
L’altruismo, tipico della specie umana e di altre specie, contraddice questo assunto, in quanto il comportamento collaborativo favorisce il gruppo, e non l’individuo in quanto tale.
In realtà, opera un calcolo probabilistico: l’altruismo prevale, se il rapporto costi/benefici di questa strategia di sopravvivenza si rivela più vantaggioso rispetto a quella egoistica. L’esempio classico è dato dalla caccia ad animali di grossa taglia, da parte dei branchi dei predatori: chi collabora in gruppo, corre un rischio minore, rispetto a chi caccia da solo, il che compensa ampiamente la necessità di doversi spartire la preda.
Il paradosso è solo apparente, dunque, ma non c’è dubbio che si verifica un’eterogenesi dei fini, per la quale l’interesse dell’individuo finisce con il convergere con quello del gruppo, anche se non a coincidere.
2. Le specie eusociali.
Ma esistono specie sociali in grado elevato, altrimenti dette eusociali? Sì, ci fanno sapere gli etologi.
In alcune di queste specie, la cooperazione e la divisione del lavoro secondo una rigida gerarchia hanno avuto come conseguenza che la maggioranza degli individui non si riproducono, essendo la riproduzione prerogativa di una “casta” specializzata di rango superiore: impressionante è il caso di molte specie di insetti, e di vespe, dove la maggior parte degli individui sono geneticamente sterili, e svolgono la funzione di operai o addirittura di soldati al servizio dello sciame o della colonia, in particolare dell’élite deputata alla riproduzione: vedi l’esempio dell’ape regina.
Qui si verifica una coincidenza perfetta tra la parte e il tutto, il singolare e l’universale, l’individuo e la società: la vita dell’individuo si scioglie in quella del gruppo. La formica operaia non è interessata ai suoi geni, ma a quelli delle formiche deputate alla riproduzione, nelle quali tutte le altre “si riconoscono” e quasi “si immedesimano” – ho usato un linguaggio antropomorfico improprio, giusto per rendere l’idea.
3. La selezione di gruppo nelle specie eusociali.
Un fattore fondamentale nel successo evolutivo delle specie eusociali è la selezione di gruppo, che si verifica se vi è una forte competizione tra società di una stessa specie, il che avviene non solo tra gli uomini, ma anche tra i primati, le formiche, eccetera. E’ la sfida della minaccia esterna che compatta il gruppo e incentiva la selezione dei tratti eusociali rispetto ai comportamenti egoistici.
La presenza del nemico esalta lo spirito di dedizione al gruppo: può trattarsi di altri gruppi o popoli, ma anche una minaccia più generica, se comunque viene percepita come assai grave, quanto quella di un nemico vero e proprio. – E’ il caso dell’attuale pandemia.
4. L’eusocialità umana.
Se immaginiamo una società umana organizzata come uno sciame di api o una colonia di formiche, otteniamo il regime politico compiutamente totalitario, dove tutti gli individui sono variabili (e quindi meri strumenti) di una funzione molto complessa, le cui risoluzioni costituiscono la sopravvivenza, ma anche la prosperità e la potenza del gruppo.
La “fusione” totalitaria risolverebbe il conflitto per mezzo della subordinazione strumentale (quindi, assoluta) dell’individuo alla società, il che sul piano del comportamento significherebbe spirito di servizio incondizionato, dedizione, abnegazione, sacrificio, fino alla morte.
Ma quanto eusociale è la nostra specie? Quanta eusocialità può esprimere un consorzio umano? Dipende da molti fattori, in quanto noi siamo imperfettamente eusociali, il che significa che l’altruismo ha il suo perenne antagonista nell’egoismo. L’identità di gruppo, a sua volta, è sempre parziale e molteplice, frammentata tra istanze in conflitto tra loro.
Le linee di frattura sono molteplici: orizzontali, verticali, tra le diverse fasi della vita: tra gruppi divisi nello spazio, divisi nella scala gerarchica e sociale, o perché si trovano in fasi della vita diverse (vecchi, e giovani).
La situazione si complica perché alla competizione tra individui si aggiunge quella tra sottogruppi della società: si appartiene alla famiglia, al gruppo degli amici, alla comunità locale, professionale, a contesti eterogenei e via via più ampi, fino alla nazione, e tra ciascuno di questi gruppi vi possono essere attriti, conflitti, che rendono molto difficile l’eusocialità.
In poche parole, nella specie umana non si giunge mai a una composizione stabile tra altruismo e egoismo, né allo svanire dell’uno a vantaggio dell’altro, come tra gli insetti o le api.
Tra l’uno e l’altro vi è una tensione continua, dove il contesto è determinante a fare pendere la bilancia da una parte, o dall’altra.
5. L’eusocialità nell’attuale stato di emergenza.
Nell’attuale situazione di emergenza, nella quale la società si sente pericolosamente sotto attacco ad opera di un nemico biologico che le fa guerra casa per casa, la bilancia tende di nuovo a pendere a vantaggio dell’altruismo: scattano, attivati dal clima di allerta e da un’attiva propaganda mediatica, meccanismi di identificazione collettiva, in grado di silenziare le pulsioni egoistiche.
La situazione di emergenza è infatti un formidabile catalizzatore, capace di vincere gli attriti, le repulsioni che normalmente agiscono tra individui e gruppi sociali, e di compattarli in un’unica entità collettiva. Ridesta energie che l’ordinaria tensione morale non riesce a fare venire fuori.
Una passione particolare che in una situazione di emergenza collettiva trova il suo humus più favorevole, della quale caratterizza il clima, è il sacrificio,
6. La funzione eusociale del sacrificio, in uno stato di emergenza.
Nella passione del sacrificio, l’egoismo non si è dileguato, evaporando nel fuoco sacro del dono di sé: tutto il pathos tragico e sublime dell’altruismo si alimenta della passione antagonista dell’egoismo, asservita a miglior causa.
La passione del sacrificio è lo sforzo supremo, la battaglia interiore di sé con sé, nella quale la tensione della vita si rivolge contro sé stessa: in questo rivolgersi contro, la vergogna e la colpa germogliano nel giardino dell’amore di sé.
La colpa è essenziale nella dinamica del sacrificio, in quanto opera il rigetto dell’attaccamento alla propria individualità e alle sue istanze, realizza una presa di distanza dal proprio “sé”, ma mai ultimata, in quanto le sue radici più profonde non possono essere estirpate se non nella morte.
Solo nella morte infatti il sacrificio è perfetto, in quanto l’individuo si adegua completamente alle richieste ideali della società: solo annullandosi nella morte, il particolare coincide con l’universale, cessa di divergere da esso.
Nella situazione del sacrificio, si rivela insieme la massima distanza e la massima vicinanza dell’uomo a uno sciame di api: il sacrificio, alimentato dall’energia stessa dell’egoismo, e dalla vergogna provocata dal senso di colpa, tende a fare coincidere l’individuo con il gruppo, però senza mai realizzarlo compiutamente.
Il sacrificio è richiamo che sale dal profondo della nostra identità di specie, o per essere più esatti di gruppo: è un richiamo ancestrale, che sale dalla profondità dell’inconscio, se opportunamente attivato, e mette l’individuo in conflitto con sé stesso.
E’ energia emotiva irrazionale molto potente, a disposizione della società. Un’energia sensibilissima alle figure storiche esemplari dell’eroismo sacrificale, che hanno dimora nel regno eterno del mito, al quale attingere nelle situazioni particolari: da notare l’enfasi dato al 4 novembre 2021, che è stato il centenario dell’istituzione del culto del Milite Ignoto, ma anche al 12 novembre, che ricorda il sacrificio dei carabinieri a Nassiriya, in Iraq, avvenuto lo stesso giorno del novembre 2003, sul cui sentiero camminano quanti coraggiosamente stanno combattendo nella guerra al Covid – 19, ciascuno per il ruolo che gli compete, ciascuno facendo il suo dovere, il più basilare dei quali sarebbe vaccinarsi, senza preoccuparsi troppo se a qualcuno fa male, perché sarebbe vile e antipatriottico.
7. La funzione eusociale dell’autoritarismo e dell’etica, in uno stato di emergenza.
L’irrigidimento autoritario è un altro tratto della pulsione altruistica, etologicamente intesa, che tende a prevalere in modo deciso in una situazione di emergenza: ciascuno è chiamato a fare il suo dovere, a svolgere il ruolo che gli è stato assegnato, a fare la sua parte, secondo un atteggiamento duplice: da una parte di cooperazione collaborante, dall’altra di subordinazione gerarchica, in modo da ridurre al minimo gli attriti, i blocchi dovuti ai conflitti, e fare dunque funzionare l’organismo sociale con la massima efficienza possibile.
Non è tempo di rivendicazioni corporative, di lotte sindacali, di contrattazione tra le parti sociali: l’emergenza è invece un tempo in cui la società deve funzionare come un tutto organico, ciascuno conformandosi al ruolo, alla parte assegnatagli.
Ma non è forse lo stesso clima che ha visto l’affermarsi dei regimi totalitari in Europa, dopo la Prima Guerra Mondiale?
Insomma, c’è posto per un revival della morale, ma anche della religione, e ovviamente dell’agape cristiana, che è dono di sé, sacrificio pasquale, che in una situazione di allarme riacquista un appeal che aveva perduto. Vedi il ruolo che sta svolgendo Suor Anna Monia Alfieri, che mette l’anelito cristiano all’unità al servizio dell’Italia.
Un altro aspetto dell’autoritarismo eusociale – decisamente deteriore da un punto di vista etico -, è il ricorso alla pressione coercitiva e repressiva, che punta sull’automatismo della paura, del conformismo, della sottomissione infantilistica all’autorità, perché per tutta una serie di ragioni non tutti obbediscono all’appello, al richiamo al dovere, e così via. Ce ne siamo accorti in questo ultimo periodo, con le cariche della polizia, le limitazioni alla libertà di manifestare, la censura di fatto al dissenso, e così via.
8. Non siamo come le formiche.
Ma noi non siamo come le formiche. Il liberalismo, che è l’esito di un lungo processo storico dell’Occidente, ha anzi sancito il primato dell’individuo: il bene comune è dato dalla somma del bene di ciascuno degli individui che formano la società (vedi la parabola della pecorella smarrita, di Gesù: il pastore lascia le altre novantanove pecore, per salvare una soltanto, che si era persa!).
L’individuo non può essere strumento di un fine, del quale il potere si avvale biopoliticamente, sia pure per perseguire l’interesse generale.
Memore del totalitarismo fascista, la nostra costituzione ha sancito questa primazia della persona.
L’art 32 è paradigmatico, a questo riguardo: il superiore interesse della collettività può portare a obbligare i cittadini a un trattamento sanitario, ma questi non può comunque ledere la dignità della persona umana. A meno di violare la costituzione, o di riformarla radicalmente (ma sappiamo pure che le fondamenta, i primi 12 articoli, sono immodificabili), la dignità è intoccabile, anche se il toccarla potrebbe fare il bene comune.
La richiesta pressante di rendere obbligatorio il vaccino, anche se la sua sicurezza non è stata provata, cozza contro questo pilastro liberale, ma anche personalistico, della nostra costituzione, e della nostra civiltà.
Nulla osta, ovviamente, che in realtà ci stiamo avviando al tramonto di un’epoca, e che in quella che comincia a prendere forma, segnata da nuove emergenze e dall’ipercontrollo tecno – amministrativo promosso dalla quarta rivoluzione industriale, le attuali costituzioni liberali e democratiche saranno di fatto rese non più operative (lettera morta) dalle trasformazioni già in corso.
Ma non è affatto detto che tale evoluzione sia augurabile, e gradita a tutti. Ad ogni modo, la Costituzione rimane il quadro di riferimento fondamentale, e non si può ragionare e agire come se non esistesse.
9. Alcune obiezioni all’attuale appello all’eusocialità, che di per sé è un valore altissimo.
Il sacrificio può soltanto essere un libero dono di sé, che si giustifica nel contesto di una visione del mondo, di una religione, di una mistica. Se pretende di diventare metodo e tecnica di governo, si traduce in un sistema di controllo totale della persona, che viene degradata a mezzo, a strumento di un fine, sia pure di salute pubblica.
Solo se è sentito il sacrificio è libertà, altrimenti è schiavitù. La stessa agape cristiana nella sua radicalità può muovere soltanto da un’azione della grazia, che tocca e santifica: non può essere imposta per legge, altrimenti si scivola nel dispotismo e nell’autoritarismo.
L’altruismo non può essere estorto con l’inganno, con la cattiva informazione, con la deformazione mediatica della realtà, perché tanto quello che conta è il risultato. Quando se ne accorge, il cittadino diventa cattivo, e non ci crede più. La manipolazione dei valori li corrode e li distrugge.
Deve inoltre fugare da sé il dubbio dell’inganno e della truffa. L’altruismo infatti può essere strumentalizzato. Essere richiesto a tutti, ma di fatto esentare l’élite, che non di rado riesce anche nelle situazioni di emergenza a badare al suo “particulare”, ovviamente a scapito degli altri.
Mentre da una parte si fa appello al bene comune in campo sanitario, e si vorrebbe imporre la virtù per legge, dall’altra l’economia continua a funzionare secondo la suprema logica del profitto, che è gioco egoistico, e non altruistico: lo si ricordi.
La pandemia ha aumentato le disuguaglianze, arricchito ancora di più i pochi, e aumentato la povertà. La politica non ha rinunciato ai suoi privilegi: la casta è rimasta tale, ha resistito alla pressione mediatica degli ultimi anni, ed è più casta che mai. Secondo stime ISTAT, l’evasione fiscale 2020 vale il 10% del Pil, e così via.
Non suona male dunque l’appello al bene comune, circoscritto solo a un settore, a un aspetto della vita sociale. Una società democratica funziona se tutti hanno accesso ai benefici, e tutti partecipano ai sacrifici.
Un altro problema insito nell’appello alla cooperazione per il bene di tutti, per un altruismo radicalizzato, è l’ambiguità inquietante della concentrazione del potere, che essa richiede. E’ il fantasma, filosoficamente fondato, del mostro tecno – sanitario, sul quale insiste il filosofo Diego Fusaro.
Se è vero che in tal modo la gestione diventa più efficiente, è anche vero che aumenta spaventosamente il potere sulle masse di chi controlla e gestisce gli apparati, avvalendosi delle nuove tecnologie digitali che una volta implementate non verranno dismesse.
Chi controlla gli apparati sono pochi, rispetto ai molti: il che provoca uno squilibrio spaventoso di potere, che per il cittadino può essere inaccettabile, perché i pochi possono perseguire i loro interessi particolari, e diventare un clan di pastori con poteri immensi sul gregge della massa.
La diffidenza della variegata galassia dei cosiddetti “no vax, che in talune frange e in singoli individui assume una coloritura paranoide, è in parte riconducibile proprio a questa ambiguità inquietante.
I nuovi strumenti di controllo messi a punto per affrontare la pandemia, non verranno dismessi. Il vantaggio conseguito nell’immediato, nella lotta alla pandemia, potrebbe essere pagato a carissimo prezzo, in termini di perdita di libertà e diritti individuali.
9. Considerazioni conclusive sull’eusocialità.
L’eusocialità funziona bene nei piccoli gruppi egualitari, fondati sulla reciprocità. Ovviamente, e a maggior ragione, nei consanguinei stretti, nei quali circola lo stesso sangue, il comune patrimonio genetico.
Nei grandi gruppi, divisi in classi, e strutturati in gerarchie, l’eusocialità ha bisogno di un supporto simbolico. Solo un tale supporto simbolico può superare la divisione reale, che separa e contrappone gli individui. Vi sono diverse possibilità.
L’unità può incarnarsi simbolicamente nel vertice della società, che funziona come una sorta di risultante di tutti i vettori, che tirano da una parte e dall’altra.
Tale vertice è rappresentato dalla figura del sovrano, che è un Dio o il rappresentante di un Dio.
Il sovrano funziona come un punto di congiunzione, dove tutte le particolarità convergono nella loro origine, che è l’universalità del divino.
Il sovrano è l’unità che assorbe e unifica le particolarità dei sudditi, che in esso superano le opposizioni per riconoscersi nella loro comune appartenenza.
Se la teologia che supporta l’istituzione regale è sufficientemente radicata nei sudditi, il re può essere un garante della comunità e dell’interesse generale. L’appello al sacrificio in nome del re in tal caso funziona, se egli sa mantenersi a una distanza sufficientemente alta dai sudditi, da rivelarsi come l’elemento unificante, in cui le distinzioni reali si trasfigurano, e si superano.
Ribadisco che occorre una credenza condivisa in una teologia regale, e una credibilità del re, garantita dal rituale, dall’aura che lo pone al di sopra della società.
Se tale credenza viene meno, il re perde l’aura, e si rivela una persona particolare che persegue interessi particolari, in alleanza con la nobiltà, con la conseguenza che l’appello al bene comune si rivela ideologica, e non è più accolto dal popolo come prima.
Un’alternativa più solida, è fondare il bene comune direttamente in Dio, e non in un suo rappresentante umano, re o sacerdote. La teologia cattolica è la più adeguata, a questo riguardo.
Se siamo tutti figli di Dio, abbiamo già superato le particolarità! Se riusciamo, per un dono della grazia, a vivere all’altezza di questa verità, faremo il bene di tutti senza badare a quello che fanno gli altri, anche se siamo consapevolissimi che gli altri continuano a fare i furbi, a fregare il prossimo, e che il sistema funziona secondo le solite logiche ciniche.
L’unità è già virtualmente realizzata in Cristo, e sarà perfetta nel compimento escatologico finale. Si possono sopportare gli inganni, le strumentalizzazioni del potere, in quanto il fondamento ultimo è Dio, e non l’uomo.
Anche il sacrificio estremo, non è annullamento di sé, sottomissione a un potere impersonale: nasce dalla carità, ed è garantito dalla carità. Ci si sacrifica per gli altri uomini, non per le istituzioni, o i rappresentanti del potere.
Siccome è l’amore che muove il tutto, perché Dio è amore, anche il sacrificio estremo non è perdita, ma comporta il guadagno ultimo della salvezza. Purtroppo, non si può fare affidamento sull’agape cristiana, per organizzare la società, anche se può dare un grosso contributo.
Il problema dell’appello al bene comune è come si concilia individuo e società, bene di ciascuno e bene di tutti.
La logica dell’altruismo, nella specie umana, si fonda sulla condivisione dei rischi e dei benefici. Se nel momento del rischio e dell’emergenza, il rischio e il sacrificio sono soprattutto a carico della maggioranza ed esentano una cospicua minoranza, scatta il sospetto dell’imbroglio e dell’inganno, in quanto la maggioranza non si identifica nella minoranza, a meno che non operi una qualche identificazione simbolica, che però presuppone una credenza o una fede, sulle quali non si può fare affidamento nelle attuali società democratiche e laicizzate.
Allora, il potere ricorre all’astuzia dell’inganno, ai meccanismi ancestrali della paura e della sottomissione che generano obbedienza, nel contesto di un’organizzazione sempre più amministrata, e digitalizzata dell’esistenza umana.
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