Carletto Romeo
Pasolini e lo scudo di diamante
Lo Spunto Letterario
di Gaetano Riggio
Pasolini, e lo scudo di diamante
Lo scudo diamante è un simbolo della coscienza morale. Come abbiamo visto nell’articolo “Guerrier qui solo d’amor sarete”, è uno scudo magico che Ubaldo, compagno d’armi di Rinaldo, rivolge verso l’eroe traviato per farlo tornare in sé: rispecchiandovisi, infatti, ha modo di misurare tutta la gravità del suo sbandamento – per avere ceduto alla seduzione macchinata dalla maga Armida – e ravvedersi.
Sono dunque le “false serene del piacere” il nemico interiore contro cui l’eroe o il militante per un ideale in generale, deve affrontare la sfida più dura, perché “il piacere è tutto ora”, mentre l’ideale richiede la “disciplina militare” del posponimento.
Un dilemma simile è vissuto dalla sinistra militante italiana nel Secondo dopoguerra, quando, con il benessere diffuso dal “boom” economico degli anni Sessanta anche tra gli operai e i contadini, la tensione etica verso una trasformazione rivoluzionaria della società illanguidisce, e il Partito comunista italiano si imborghesisce.
Pasolini riassume la radicale trasformazione della società italiana avvenuta negli anni del Boom economico nel concetto di “mutazione antropologica”, che nel contesto del neocapitalismo trionfante trasforma l’umanità tradizionale in una massa anonima di consumatori, sulla base “dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano.
E’ stato lo stesso Potere – attraverso lo sviluppo della produzione di beni superflui, l’imposizione della smania del consumo, la moda, l’informazione (soprattutto, in maniera imponente, la televisione) – a creare tali valori, gettando a mare cinicamente i valori tradizionali e la Chiesa stessa, che ne era il simbolo”. (Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, 1974.)
Rincara la dose in un altro articolo “L’articolo delle lucciole” (1975), dove esamina gli effetti della rivoluzione antropologica neocapitalistica: “Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a ‘tempi nuovi’, ma a una nuova epoca della storia umana: di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche. […] Essi [gli italiani] sono divenuti in pochi anni (specie nel Centro – sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. […] Ho visto dunque ‘coi miei sensi’ il comportamento coatto del potere dei consumi a ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione.”
L’ideologia edonistica del consumo, la tolleranza modernistica, il potere che ha il consumo di ricreare e deformare la coscienza, il loro effetto irreversibilmente degradante – dei quali discute Pasolini -, corrispondono alle false sirene del piacere di cui parla Tasso a proposito di Rinaldo irretito nel giardino di Ermida e delle due donzellette che simulando ammiccano per incastrare anche Carlo ed Ubaldo, giunti a soccorso del compagno. (Rimando ancora all’articolo, a questo proposito, “Guerrier qui solo d’amore sarete”.)
https://www.carlettoromeo.com/guerrier-qui-solo-damor-sarete/
Corrispondono, perché distraggono e distolgono, con un richiamo fatto ad arte, manipolatorio, Rinaldo dalla guerra, i militanti politici dall’impegno attivo per un mondo migliore, i cittadini dal senso civico, e così via.
Resta da individuare quale sia lo scudo, che si erge verso Pasolini stesso per richiamarlo all’impegno politico e ideale, dove egli scorge riflessa la sua coscienza, la quale però contraddittoriamente oscilla tra il senso del dovere e il richiamo dell’evasione. Questo scudo è Antonio Gramsci, che egli rievoca in un famoso poemetto del 1954 “Le ceneri di Gramsci”.
Questo titolo riporta in italiano l’iscrizione latina incisa sulla lapide della tomba di Antonio Gramsci, “Cinera Gramsci”, che Pasolini visita in una grigia giornata di maggio, presso il Cimitero degli Inglesi, a Roma.
Gramsci incarna il desiderio puro dell’ideale che opera nella storia, animato da fede e passione, dall’abnegazione che giunge fino al sacrificio di sé, in vista di un bene supremo che si realizza nella prassi politica.
Ma quell’ideale non risuona nel presente: “[…] Spande una mortale / pace, disamorata come i nostri destini, / tra le vecchie muraglie l’autunnale / maggio …” (I, vv. 8 – 11)
Il cuore degli uomini – ma anche quello di Pasolini – è disamorato, privo dell’ardore dell’entusiasmo: “[…] In esso c’è il grigiore del mondo, / la fine del decennio in cui ci appare / tra le macerie finito il profondo / e ingenuo sforzo di rifare la vita; / il silenzio fradicio e infecondo …” (I, vv. 11 – 15).
In quel maggio autunnale si riflette dunque il grigiore del mondo, in cui l’entusiasmo dei primi anni del Secondo dopoguerra – entusiasmo visionario di un futuro migliore e rinnovato -, collassa nelle macerie di un silenzio cimiteriale, fradicio e infecondo. (Il poemetto è del 1954, ed erano perciò trascorsi nove anni dalla fine della guerra, sufficienti però ad assopire gli entusiasmi del primo momento.)
Ma quel vuoto dell’ideale spento è stato provocato e colmato dal “Potere” – come lo chiama Pasolini – “attraverso lo sviluppo della produzione di beni superflui, l’imposizione della smania del consumo, la moda, l’informazione (soprattutto, in maniera imponente, la televisione)”, che adescano con le profferte di piaceri, sia pure manipolati, artificiali ed effimeri.
Non c’è dubbio infatti che tutto l’apparato del consumismo in tutte le sue manifestazioni si offre ai consumatori – ai fedeli del culto – come una versione industriale dell’età dell’oro o del paese di Bengodi, come un canto di sirene che attira sulle spiagge scintillanti del marketing. Il ripiegamento nel privato, la crisi della tensione ideale e civica, la disgregazione degli istituti comunitari che consegue al nuovo narcisismo edonistico, ne sono l’effetto.
Afferma infatti Pasolini: “I ‘valori’ […] del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più. […] A sostituirli sono i ‘valori’ di un nuovo tipo di civiltà, totalmente ‘altra” rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale.” (“L’articolo delle lucciole”)
Non conta più la Chiesa, perché surrogata dalla religione del consumo, che promette e offre il piacere “tutto qui e ora”, negli istanti reiterabili a volontà del consumo e delle relazioni disimpegnate. Non contano più né patria né famiglia, di cui il nuovo individuo liberato si sbarazza in quanto vincoli e catene che ne ostacolavano l’espansione. Non conta più ovviamente l’ideologia, e il Partito.
Il consumismo edonistico ha tutti i tratti di una religione secolare, dunque. Quando Pasolini usa il concetto di “mutazione antropologica” e di “nuovo fascismo”, peggiore di quello storicamente realizzatosi nella prima metà del Novecento, intende riferirsi proprio al carattere totalitario di questo nuovo capitalismo, capace di sbarazzarsi, perché non ne ha bisogno, di religione, patria, famiglia, rivoluzione, in quanto promette di appagare tutti i desideri con i suoi beni e servizi, qui e ora.
Ecco perché la mano di Gramsci, che additava l’ideale, non conta, a sua volta, più nulla: “Tu giovane, […] già con la tua magra mano / delineavi l’ideale che illumina / (ma non per noi: tu morto, e noi / morti ugualmente, con te, nell’umido / giardino) questo silenzio.” (I, vv.16 – 25).
Lo scudo di diamante che è Gramsci, è inefficace dunque nel tempo odierno. Pasolini stesso esita, rinnega in cuor suo il maestro:
“Eppure senza il tuo rigore, sussisto / perché non scelgo. Vivo nel non volere / del tramontato dopoguerra: amando / il mondo che odio – nella sua miseria / sprezzante e perso / per un oscuro scandalo / della coscienza …” (III, vv.45 – 50).
Confessa di essere contraddittorio, riconosce questo oscuro scandalo della coscienza:
“Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te, e contro di te; con te nel core / in luce, contro te nelle buie viscere; / […] nel calore / degli istinti, dell’estetica passione; / attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua / coscienza: è la forza originaria / dell’uomo, che nell’atto s’è perduta, / a darle l’ebbrezza della nostalgia / una luce poetica: ed altro più / io non so dirne, che non sia / giusto ma non sincero, astratto / amore, non accorante simpatia …” (IV, vv.1- 18).
Torna dunque il conflitto tra l’aurea legge del piacere e la dura legge dell’onore (del dovere): Pasolini è con Gramsci, e contro Gramsci; con lui nella luce della coscienza morale, contro di lui nel calore degli istinti, e nell’estetica passione.
All’evasione consumista delle masse Pasolini contrappone il mito personale e letterario di un tempo originario, felice e giusto, che però è evasione anch’esso, sia pure alta, nella misura in cui distrae dall’impegno etico – politico nel tempo storico presente.
È questo richiamo delle “buie viscere” a mettere Pasolini contro Gramsci, questo mito regressivo di un ritorno alla natura come a un’origine incontaminata, non ancora corrotta dalla storia, vissuta e sentita nella vitalità corporea degli istinti (“nel calore degli istinti, dell’estetica passione”).
Ecco perché della vita proletaria Pasolini ama “non” la coscienza di classe, la lotta rivolta al futuro, “ma” la “vita anteriore”, quella che precede la storia; ne ama “l’allegria”, “la forza originaria”, che proietta sul mondo proletario una speciale nostalgia, una luce poetica.
Siamo di nuovo al mito dello stato di natura di Rousseau, o dell’età dell’oro rievocata nostalgicamente dal Tasso nell’Aminta, e poi rinnegata nella Gerusalemme liberata.
Non aderisce senza contrasti Pasolini al rigore morale di Gramsci, alla disciplina che incanala e dà forma all’istinto, sublimato nell’azione politica, nella dimensione della storia.
Nelle strofe successive del poemetto Pasolini ci offre un saggio mirabile di elaborazione poetica del mito dell’età dell’oro, intuita ora in chiave estetizzante come immersione panica della natura, ora come vitalità corporea, come esuberanza sensuale.
Prende spunto dal fatto che la tomba di Gramsci è vicina a quella del poeta romantico inglese Shelley, morto in un naufragio sul litorale laziale, con il quale sente una profonda affinità: “[…] Ah, come / capisco … l’anima il cui graffito suona / Shelley …” (V, vv.29, 34).
Pasolini si riconosce nella sua vitalità: “… Come capisco il vortice / dei sentimenti, … la carnale / gioia dell’avventura, estetica / e puerile: mentre prostrata l’Italia … spalanca bianchi litorali, / sparsi nel Lazio di velate torme / di pini, barocchi, di giallognole / radure di ruchetta, dove dorme / col membro gonfio tra gli stracci un sogno / goethiano, il giovincello ciociaro …” (V, vv.34 – 47).
Si avverte una “vitalità disperata”, dirompente, in cui la percezione estetica è essa stessa contato corporeo con il mondo, godimento del corpo in una dimensione fuori del tempo, in cui il giovane ciociaro, il proletario dei versi precedenti, si trasfigura in archetipo mitologico, in satiro perduto in un delirio erotico di fusione con la natura. Il proletariato di Pasolini non è dunque coscienza, lotta, ma natura, istinto, non è futuro, ma passato originario, paradiso perduto.
Nei versi successivi dipinge con suggestive pennellate i litorali selvaggi e ardenti della costa maremmana, visitata da Shelley nel suo viaggio per mare: “… Di scogli, / frane, sconvolti, come per un panico / di fragranza, nella Riviera, molle, / erta, dove il Sole lotta con la brezza / a dar suprema soavità agli olii / del mare … E intorno ronza di lietezza / lo sterminato strumento a percussione / del sesso e della luce … gridano caldi / da centinaia di porti il nome / del compagno i giovinetti madidi / nel bruno della faccia, tra la gente / rivierasca, presso orti di cardi, / in luride spiaggette …” (V, vv.59 – 73).
Non si può non sentire echeggiare nello “sterminato strumento a percussione del sesso e della luce” e nel “grido dei giovinetti madidi” le parole e i vezzi di pastori e ninfe, descritti da Tasso nel coro dell’Aminta (vedi l’articolo “La legge aurea e felice …”):
“sedean pastori e ninfe / meschiando a le parole / vezzi e susurri, ed ai susurri i baci / strettamente tenaci; / la verginella ignude / scopria sue fresche rose, / ch’or tien nel velo ascose, / e le poma del seno acerbe e crude; / e spesso in fonte o in lago / scherzar si vide con l’amata il vago.”
Per concludere, Pasolini si schermisce dallo scudo di Gramsci: “Mi chiederai tu, morto disadorno, / d’abbandonare questa disperata / passione d’essere al mondo?” (V, vv.74 – 76).
Non ha la volontà ferrea, la fede battagliera nel futuro del militante comunista, e al neocapitalismo che egli ha analizzato nei termini che abbiamo sopra riportato, contrappone il mito di un tempo originario, in armonia con la natura, dai ritmi lenti e quasi senza tempo delle società preindustriali, che la modernizzazione neocapitalistica stava distruggendo. Non contrappone l’impegno, ma l’evasione in chiave letteraria.
All’edonismo consumista, gestito e manipolato dal Potere, contrappone il mito letterario ed estetizzante di un’originari armonia dell’uomo con la natura, fuori dalla storia.
Quello che conta, comunque, e che emerge dallo studio di Pasolini sulla mutazione antropologica, è che il neocapitalismo consumista sfrutta e manipola il miraggio dell’età dell’oro per ottenere il consenso: e in questo modo ha radicalmente trasformato la società imponendo il suo modello “totalitario” con il consenso delle masse.
Il mito dell’età dell’oro, che è aspirazione e anelito profondo, può diventare strumento di asservimento e degradazione dell’uomo.
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