“Il Magistero di Papa Francesco I, tra novità e rotture” di Gaetano Riggio

"Il Magistero di Papa Francesco I, tra novità e rotture" di Gaetano Riggio - Per la rubrica "Lo Spunto Letterario

Lo Spunto Letterario
di Gaetano Riggio


“Il Magistero di Papa Francesco I, tra novità e rotture”

Il pontificato di Francesco I (2013 – 2025) segna una forte discontinuità rispetto ai suoi predecessori. Non si limita a seguire il Concilio Vaticano II, con il quale la Chiesa aveva già aggiornato il suo magistero con un nuovo atteggiamento di dialogo e apertura in grado di attualizzare e rivitalizzare il messaggio cristiano in un contesto sociale sempre più secolarizzato. Egli infatti va oltre.
Irrituale, è fin da subito, quando affacciandosi per la prima volta in piazza San Pietro, il 13 marzo 2015, si rivolge con un prosaico “Buonasera!” ai fedeli, con i quali punta chiaramente a stabilire una comunicazione cordiale, e non da Vicario di Cristo.
Questa attitudine egualitaria (tutti fratelli in Cristo), e non gerarchica, trova conferma nella scelta di risiedere a Santa Marta, e non nel Palazzo Apostolico, residenza ufficiale del Pontefice, come pure nella scelta di un’auto utilitaria per i suoi spostamenti.
D’altra parte, Jorge Mario Bergoglio è il primo Papa a scegliere come nome quello del “fraticello d’Assisi”, che interpreta il rapporto tra le creature di Dio come un rapporto di fratellanza: fratelli e sorelle sono i membri dell’ordine mendicante fondato da lui e da Chiara, come da fratelli e sorelle è costituito tutto il resto del Creato (fratello Sole, sorella Luna, madre Terra!).
La rinunzia, o comunque la messa in secondo piano, della funzione di Vicario di Cristo è chiara pure nella risposta che Francesco I dà a un giornalista che gli chiede, all’inizio del suo pontificato, che cosa pensa degli omosessuali: “chi sono io, per giudicare?”
La vocazione francescana di papa Bergoglio risulta programmaticamente esposta nell’enciclica “Laudato sì” (2015), il cui titolo è una citazione dal celebre Cantico delle creature di San Francesco d’Assisi (“Laudato sì, mì Signore / cum tucte le creature”), una vocazione che declinata secondo le categorie politiche dell’oggi si traduce in un ecologismo integrale, ma altresì in un comunitarismo cristiano.
L’uomo, e ancora di più il cristiano, non soltanto è chiamato da papa Francesco a superare l’antropocentrismo aggressivo e violento della modernità, per riscoprirsi parte del Creato, nel quale deve imparare a vivere armoniosamente nel rispetto delle altre creature e dei loro ecosistemi, ma anche a praticare in carità la condivisione secondo “il principio del bene comune”, che si basa sull’assunto “della destinazione comune dei beni della terra”, che invece è tradita “senza un’attenzione particolare alla giustizia distributiva, la cui violazione genera sempre violenza.”

Non c’è dubbio che qui il magistero di papa Francesco I ha potuto diventare un punto di riferimento per tutto il movimento ecologista e ambientalista globale, nonché per il variegato campo della sinistra, che non può non condividere la difesa dei beni comuni contro la loro appropriazione oligarchica e della giustizia distributiva contro le crescenti disuguaglianze sociali ed economiche a livello mondiale: “Nelle condizioni attuali della società mondiale, dove si riscontrano tante iniquità e sono sempre più numerose le persone che vengono scartate, private dei diritti umani fondamentali, il principio del bene comune si trasforma immediatamente, come logica e ineludibile conseguenza, in un appello alla solidarietà e in una opzione preferenziale per i più poveri. Questa opzione richiede di trarre le conseguenze della destinazione comune dei beni della terra, ma, […] esige di contemplare prima di tutto l’immensa dignità del povero alla luce delle più profonde convinzioni di fede. Basta osservare la realtà per comprendere che oggi questa opzione è un’esigenza etica fondamentale per l’effettiva realizzazione del bene comune.”
Ma è un magistero duramente attaccato dalla destra neoliberista, che è allergica al concetto di “bene comune”, ma anche dalla componente conservatrice e tradizionalista della stessa Chiesa cattolica, con fratture gravi e dolorose.
In particolare, l’ecologia integrale di “Laudato sì” viene tacciata di neopaganesimo eretico, in quanto promuoverebbe una sorta di culto idolatrico di “Pachamama”, la Madre Terra, in contraddizione con la teologia biblica, che pone l’uomo, in quanto fatto a immagine e somiglianza di Dio, al centro del Creato, del quale è custode ma anche signore, come si dedurrebbe da Genesi 1,28: “Dio li benedisse e Dio disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra».”
Tutto un certo cristianesimo statunitense ma anche un certo cattolicesimo filo – trumpiano, negazionista in fatto di emergenza climatica e ambientale, usa (e abusa di) questo passo biblico per giustificare il capitalismo più predatorio, cinico e incurante.
Ma il fumus di eresia pare farsi più denso, se passiamo all’enciclica del 2020, “Fratelli tutti”, dove l’afflato francescano alla fratellanza universale, nella misura in cui non è necessariamente vincolata a Cristo Salvatore, rischia inevitabilmente di farsi eco di un generico umanitarismo e filantropismo laici (la “fraternité” della Rivoluzione francese del 1789), che smarriscono l’essenza del cristianesimo, che è il valore salvifico di Gesù Cristo per tutta l’umanità, come risulta sancito nella dichiarazione “Dignitatis humanae” del Concilio Vaticano II: “Dio stesso ha fatto conoscere al genere umano la via attraverso la quale gli uomini, servendolo, possono in Cristo trovare salvezza e pervenire alla beatitudine. Questa unica vera religione crediamo che sussista nella Chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore Gesù ha affidato la missione di comunicarla a tutti gli uomini”.
Qui comunque siamo di fronte a un dilemma, che si è posto fin dal Concilio Vaticano II, che pur ribadendo “la Chiesa cattolica come unica vera religione”, ha comunque fatto dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso uno dei pilastri del rinnovamento postconciliare.

Basta ricordare un evento fondamentale del Pontificato di Giovanni Paolo II, il pellegrinaggio ad Assisi del 1986, con la partecipazione di delegazioni di tutte le religioni del mondo, che pone il problema della conciliazione del valore di verità di tutte le religioni del mondo con il privilegio del cristianesimo di essere l’unica vera religione.
Sotto accusa, è soprattutto il Capitolo VIII di “Fratelli tutti”, “Le religioni al servizio della fraternità del mondo”, dove il principio della Chiesa cattolica e apostolica quale unica vera religione pare chiaramente subordinato al principio, in qualche modo contrario, “dell’azione di Dio nelle altre religioni”: ragion per cui la Chiesa “considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che […] non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”.
L’enciclica non pare conferire un particolare privilegio di verità al Cristianesimo rispetto alle altre religioni, che sono altrettante rivelazioni legittime del mistero divino: “Altri bevono ad altre fonti. Per noi, questa sorgente di dignità umana e di fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo. Da esso «scaturisce per il pensiero cristiano e per l’azione della Chiesa il primato dato alla relazione, all’incontro con il mistero sacro dell’altro, alla comunione universale con l’umanità intera come vocazione di tutti”.
L’identità cristiana, a cui è dedicato un paragrafo di questo capitolo, esce sicuramente indebolita nel suo assunto di essere la rivelazione piena e ultima della verità nella persona di Gesù Cristo, in quanto la sua validità non è oggettiva, ma soltanto “per noi”: per noi soltanto è “sorgente” di verità, non per gli altri, che “bevono ad altre fonti”.
In questa prospettiva si colloca il documento immediatamente precedente “Sulla fratellanza umana. Per la pace mondiale e la convivenza comune”, scritto in occasione del viaggio apostolico negli Emirati Arabi Uniti, dove il papa ha incontrato ad Abu Dhabi una delle massime autorità sunnite, il Grande Imam della moschea egiziana di Al – Azhar, Ahmad Al – Tayyeb.

Il documento reca in calce la firma di queste due supreme autorità del Cristianesimo e dell’Islam, che “in nome di Dio […] con i musulmani d’Oriente e d’Occidente –, insieme alla Chiesa Cattolica – con i cattolici d’Oriente e d’Occidente –, dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio.”
L’assunto comune è una fede che trascende i Testi Sacri, nella loro letteralità, e che presuppone che “il primo e più importante obiettivo delle religioni è quello di credere in Dio, di onorarLo e di chiamare tutti gli uomini a credere che questo universo dipende da un Dio che lo governa, è il Creatore che ci ha plasmati con la Sua Sapienza divina e ci ha concesso il dono della vita per custodirlo. Un dono che nessuno ha il diritto di togliere, minacciare o manipolare a suo piacimento, anzi, tutti devono preservare tale dono della vita dal suo inizio fino alla sua morte naturale. Perciò condanniamo tutte le pratiche che minacciano la vita come i genocidi, gli atti terroristici, gli spostamenti forzati, il traffico di organi umani, l’aborto e l’eutanasia e le politiche che sostengono tutto questo.”
Questo appello spirituale “bipartisan” a un Dio comune, che trascende le particolarità delle rivelazioni storiche, ma anche delle loro manipolazioni da parte del potere come “instrumentum regni”, ha allarmato i custodi della fede, e dell’integrità della rivelazione cristiana, che vedono minacciata nel suo nucleo fondante ed eterno.
Da qui sono derivati dubbi, sospetti, lacerazioni dolorose e lotte tra fazioni, nonché tesi forse complottiste sulla legittimità del papato di Jorge Mario Bergoglio, sulle quali non saprei dare un giudizio, anche se autorevolmente sostenute.
Quello che è certo, è che papa Francesco è stato considerato dai suoi nemici come un fautore della globalizzazione del pensiero unico, e un affiliato della “setta di Davos”, in quanto compartecipe alla realizzazione del progetto di un’etica globalista, calata dall’alto, mirata a cancellare tradizioni, identità locali e culturali, e dunque totalitaria nello spirito e nelle forme.
Certo, il magistero di papa Bergoglio si presta a un’interpretazione riduzionista che ridurrebbe la fede a morale, condivisibile anche dai non credenti, ma non è da disprezzare l’esigenza, in quanto cittadini del villaggio globale, di approfondire il dialogo tra le religioni in un quadro di riferimento comune, per quanto possa essere problematico.
Non è affatto da trascurare – ma decisivo per la comprensione – il fatto che Jorge Mario Bergoglio era un gesuita, e che la missione della Compagnia di Gesù, fin dalla fondazione, alla metà del Cinquecento, è stata sempre quella di calare il messaggio evangelico in contesti culturali estranei, attraverso un’attenta opera di acculturazione e mediazione. Ma fino a che punto è possibile questa mediazione senza tradire il nucleo irrinunciabile della fede? O cedere alla mentalità corrente, se questa mentalità confligge con le verità della fede, spirituali e morali?
A questo proposito, terminiamo con un accenno a un altro documento profondamente divisivo: la dichiarazione “Fiducia supplicans” (2023) del Dicastero per la dottrina della fede, dove un paragrafo reca come titolo “Le benedizioni di coppie in situazioni irregolari e di coppie dello stesso sesso.”
Vi si afferma quanto segue:
“Nell’orizzonte qui delineato si colloca la possibilità di benedizioni di coppie in situazioni irregolari e di coppie dello stesso sesso, la cui forma non deve trovare alcuna fissazione rituale da parte delle autorità ecclesiali, allo scopo di non produrre una confusione con la benedizione propria del sacramento del matrimonio. In questi casi, si impartisce una benedizione che non solo ha valore ascendente ma che è anche l’invocazione di una benedizione discendente da parte di Dio stesso su coloro che, riconoscendosi indigenti e bisognosi del suo aiuto, non rivendicano la legittimazione di un proprio status, ma mendicano che tutto ciò che di vero di buono e di umanamente valido è presente nella loro vita e relazioni, sia investito, sanato ed elevato dalla presenza dello Spirito Santo. Queste forme di benedizione esprimono una supplica a Dio perché conceda quegli aiuti che provengono dagli impulsi del suo Spirito – che la teologia classica chiama “grazie attuali” – affinché le umane relazioni possano maturare e crescere nella fedeltà al messaggio del Vangelo, liberarsi dalle loro imperfezioni e fragilità ed esprimersi nella dimensione sempre più grande dell’amore divino.”
Aspettiamo con ansia l’elezione del nuovo papa, per scorgere, tra i due insegnamenti, quello di Benedetto XVI e quello di Francesco I, come intenderà orientare il suo ministero.

Gaetano Riggio


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Carletto Romeo