Carletto Romeo
La bellezza e il male
Lo Spunto Letterario
di Gaetano Riggio
Riprendendo quanto già detto, possiamo affermare che per gli enti del mondo la bellezza è forma, “bella forma”, vale a dire un certo ordine e una certa armonia, che li rende conformi a un modello ideale. Occorre però aggiungere due considerazioni:
– La bellezza non è la norma della realtà, ma una sua possibilità, transeunte negli individui in cui si manifesta, alla quale si contrappone il brutto, che varia dal comico al tragico. Il brutto è dunque una manifestazione del male naturale, ma anche di quello morale, commesso dall’uomo.
– L’etica è allora riconducibile all’ambito del bello, in quanto prescrive una condotta ideale che corregge le tendenze naturali, e reca ordine e armonia interiori.
– Di conseguenza, il bello è anche buono, e viceversa; mentre il male è anche brutto, e viceversa.
Essendo infatti la bellezza una sorta di perfezione che inerisce all’essere delle cose, alla quale esse tendono, la bellezza non può non coincidere con il bene, che è pure a sua volta perfezione dell’essere che include il dover essere dell’etica, in una circolarità in cui ciò che è bello è buono, e ciò che è buono è bello.
La bellezza coincide con il bene, e la bruttezza con il male. Il brutto è infatti l’effetto del male, che misteriosamente deforma, o come errore di struttura o come conseguenza del disordine portato dal divenire del tempo o dal comportamento immorale dell’uomo, l’armonia funzionale di ciò che è bello, irreversibilmente. Il bello, è invece effetto del bene, che è il principio che mette ordine, che agisce all’interno del caos per strutturarlo, e renderlo conforme all’idealità.
Tra tutte le arti, quella che più realisticamente ricrea, nell’artificio del simulacro, la bellezza della forma, è la scultura, che è rappresentazione tridimensionale che fissa la forma sottraendola alla dimensione dissolvitrice del tempo, che la rovina e distrugge.
Essa infatti cattura la forma nell’istante dell’immobilità, che ferma il flusso del divenire che conduce alla morte, come nell’”Ode a un’urna greca” di John Keats, dove l’arte è la verità della vita:
“E tu, giovane, bello, non potrai mai finire / Il tuo canto sotto quegli alberi che mai saranno spogli; / E tu, amante audace, non potrai mai baciare / Lei che ti è così vicino; ma non lamentarti / Se la gioia ti sfugge: lei non potrà mai fuggire, / E tu l’amerai per sempre, per sempre così bella. […] Superiori siete a ogni vivente passione umana / Che il cuore addolorato lascia e sazio, / La fronte in fiamme, secca la lingua.”
Ma nella realtà la bellezza appare spesso sconnessa dal bene. È un fatto. Spesso infatti accade che la bellezza della forma percepibile sia associata al male fisico o morale: in che modo, in questi casi, il secondo si ripercuote sulla prima?
Un esempio estremo, ma appunto per questo perspicuo, è una bella donna che lavora per il controspionaggio, che abbia avuto l’ordine di sedurre e poi eliminare una brava persona, che lotta per la libertà del suo popolo.
Non c’è dubbio che il cinismo spietato di questa donna getta una luce sinistra sul suo aspetto, come lo sporco sul candore del bianco.
Il successo stesso della seduzione di questa spia dipende dalla tendenza ad associare la bellezza dell’aspetto al bene morale, il che indica che nella connessione bellezza – male vi può essere qualcosa di contorto e di distorto. La bellezza dovrebbe potenziare il bene, e viceversa: è questa l’aspettativa.
Questa connessione bellezza – male è una delle fonti del cosiddetto fascino del male, e quindi della seduzione e dell’attrazione irresistibili, che ad esempio questo tipo di donna può esercitare.
Il paradigma di questa estetica sono “I fiori del male” di Baudelaire, che dal male ritiene di potere ricavare e creare fiori di bellezza, come teorizza nell’” Inno alla bellezza”:
“Vieni dal cielo profondo o esci dall’abisso, /Bellezza? Il tuo sguardo, divino e infernale, / dispensa alla rinfusa il sollievo e il crimine, / ed in questo puoi essere paragonata al vino. / Esci dal nero baratro o discendi dagli astri? / Il Destino irretito segue la tua gonna / come un cane; semini a caso gioia e disastri, / e governi ogni cosa e di nulla rispondi.”
Per Baudelaire, e in genere i moderni, la bellezza può essere anche demoniaca, senza cessare di essere tale, e il suo sguardo può dispensare il crimine, non necessariamente la serenità, o la bontà. Ma in questo modo la bellezza depone la funzione di essere valore positivo ultimo, ideale di conformità congiunto al bene, capace di dare un senso condiviso, ed emotivamente forte: non è comunque questo il tipo di bellezza, che possa salvare il mondo (Dostoevskij), ma solo quella sposata al Bene.
Restando alla bellezza femminile, questo connubio tra bellezza e male si incarna storicamente nelle figura della “femme fatale”, che è appunto un archetipo, in cui il male si ammanta delle vesti del bello per farsi accattivante, degradandolo a quella cosa o esperienza ambigua e conturbante che chiamiamo appunto fascino, malia, attrazione, eccetera.
Archetipo letterario di questo tipo femminile è la ballata del poeta romantico inglese John Keats, “La belle dame sans merci” (1819), in cui un cavaliere in preda alla desolazione racconta quel che gli era accaduto:
“Per i prati vagando una donna / Ho incontrato, bella oltre ogni linguaggio, / Figlia d’una fata: i capelli aveva lunghi, / Il passo leggero, l’occhio selvaggio.”
La quale lo guardò come se lo amasse, ed egli la mise sul suo cavallo:
“E altro non vidi per quella giornata, / Ché lei dondolandosi cantava / Una dolce canzone incantata. […] / Sicuramente nella sua lingua strana / Mi diceva, “Sii certo, il mio amore non t’inganna”. / E mi portò alla sua grotta fatata […].”
Ma dopo essersi addormentato tra le sue braccia, fece un sogno amaramente veritiero, in cui gli apparvero re, principi e guerrieri, che avevano tutti il pallore della morte:
“La belle dame sans merci”, mi dicevano, / “Ha ormai in pugno la tua sorte”. / Vidi le loro labbra consunte nella sera / Aprirsi orribili in un grido disperato, / E freddo mi svegliai, ritrovandomi lì, / Sul fianco del colle ghiacciato.”
Ma sono soprattutto le figure di Erodiade e della figlia di lei Salomè, a incarnare nell’immaginario di fine Ottocento la seduzione del male al femmile: la prima, mossa dall’ambizione, sposa il fratello del marito; la seconda, per mettere a tacere Giovanni Battista che denunciava con parole taglienti l’immoralità della madre, seduce con la danza il patrigno Erode Antipa, che gli promette qualsiasi cosa, ma lei sceglie la testa del Battista, su un vassoio d’argento.
Ecco la descrizione di Flaubert, nel racconto breve “Erodiade”:
“Seguì l’impeto di passione che desidera essere appagato. La ragazza danzò come le sacerdotesse indiane, come le nubiane delle Cateratte, come le baccanti della Lidia.
Simile a un fiore smosso da un’impetuosa brezza, si piegava su ogni lato. I pendenti delle orecchie oscillavano, la stoffa delle spalle cangiava, dalle braccia, dai piedi, dalla veste, si sprigionavano diafane scintille tese a infiammare gli animi degli uomini. Un’arpa iniziò a suonare, i presenti risposero con un’acclamazione. Senza flettere le ginocchia, divaricando le gambe, la giovane si curvò con una tale abilità che il mento le sfiorava il pavimento e i nomadi, avvezzi all’astinenza, i soldati romani, avvezzi a ogni dissolutezza, gli avari pubblicani, gli anziani sacerdoti inaciditi dalle diatribe, tutti i presenti, insomma, dilatate le narici, palpitavano di bramosia.
La sua nuca e le vertebre formavano un perfetto angolo retto. I tubini colorati che le avvolgevano le gambe, allungandosi al di sopra delle spalle come arcobaleni, accompagnavano la sua figura a un cubito dal suolo. Aveva le labbra dipinte, le sopracciglia curate, scure, gli occhi contratti in uno sguardo quasi terribile e le goccioline di sudore che le colavano dalla fronte parevano vapore diffuso su un biancore marmoreo. Lei taceva ed entrambi si indagavano. Dalla tribuna si avvertì uno schioccare di dita. Lei vi salì e pronunciò le seguenti parole con aria infantile: “Voglio che tu mi serva su un vassoio la testa di….”. Dimenticato il nome di chi, riprese sorridendo: “…la testa di Jochatan!”.
La “belle dame sans merci” e “Salomè” sono due varianti di un uso della bellezza come strumento di dominio e di potere: aspirare a possederla significa esserne già posseduto, e conduce il cavaliere alla desolazione; ed Erode Antipa a fare decapitare Giovanni Battista, per fare dono del suo capo a Salomè.
Un’ambiguità analoga la riscontriamo in tutte quelle situazioni (reali o letterarie) in cui lo sfoggio della bellezza da parte di persone altolocate è piuttosto palesemente associata all’ingiustizia, all’oppressione, allo sfruttamento: la bellezza esteriore in questi casi suscita nelle persone sensibili un fastidio simile alla nausea, oppure l’attrazione morbosa del male che si cela sotto un manto ingannevole. La bellezza risulta adulterata o falsata dallo squallore morale che la avvolge.
Nel nostro tempo non si dà se non raramente un’esperienza della bellezza, che sia associata al bene o alla moralità.
Le donne della pubblicità e del marketing non devono tanto risultare belle quanto piuttosto attraenti: devono suscitare l’esperienza dell’eccitazione, della quale la bellezza si fa strumento. È vero che la bellezza fisica è il più importante ingrediente dell’attrazione, ma l’enfasi sull’erotismo del corpo è solo una possibilità della sua esibizione.
Il corpo (iper-)sesssualizzato o pornificato, che prevale nella sfera dei mass-media, ma ormai anche della moda e del costume, è un corpo in cui la bellezza ha la funzione prevalente, se non esclusiva, di provocare l’eccitazione e il desiderio sessuali, con la conseguenza che ad avere risalto non è la bellezza in sé, ma il suo effetto provocante. L’ipersessualizzazione inibisce un’esperienza estetica profonda, dato che l’effetto dell’eccitazione sposta il centro dell’attenzione dell’armonia del corpo in quanto tale, a singole parti, quelle maggiormente cariche di erotismo.
In effetti il corpo erotizzato o pornificato non è portatore dell’armonia della bellezza, ma è fatto di pezzi o parti che si staccano dal tutto, e ipnotizzano l’attenzione (gambe, sedere, seno, inguine).
Ma non necessariamente un corpo nudo è un corpo sessualizzato o pornificato. Conta soprattutto quello che il corpo esprime attraverso il contegno esteriore. Un caso celebre è il gruppo scultoreo delle Tre Grazie di Canova, dove soltanto un tenue velo ricopre le parti intime delle Dee. Ciononostante quel che colpisce, è proprio l’armonia delle forme e dei gesti, e così via.
In tutti i casi che abbiamo esaminato, il bello è congiunto a qualcosa di altro dal bene, che lo contamina e lo altera, conferendogli un carattere ibrido.
Per fare un altro esempio, è la bellezza della forma che rende ammaliante la bestia feroce, nella poesia “La tigre” di William Blake, la cui simmetria è spaventosa, perché manifesta un ordine da cui emana il disordine della crudeltà, della lacerazione, della violenza e del male, che gela l’uomo:
“Tigre, Tigre! Divampante fulgore / nelle foreste della notte, / quale fu l’immortale mano o occhio, / ch’ebbe la forza di formare la tua agghiacciante simmetria? // In quali abissi o in quali cieli / accese il fuoco dei tuoi occhi?”
L’accenno a Blake, ci conduce a parlare dell’associazione tra bellezza e violenza, che è l’altro importante aspetto dell’estetica del male. La tigre suscita terrori mortali, perché la simmetria delle sue forme ha la terribile efficienza di una macchina biologica votata alla violenza e alla strage. Dobbiamo riconoscere che la violenza, se associata all’eleganza atletica del gesto, e all’efficacia della forza, esercita un notevole fascino, il fascino del male e della violenza appunto, come nei seguenti versi omerici:
“Sì disse orando. L’udì Febo, e scese dalle cime d’Olimpo in gran disdegno coll’arco su le spalle, e la faretra tutta chiusa. Mettean le frecce orrendo su gli omeri all’irato un tintinnìo al mutar de’ gran passi; ed ei simìle a fosca notte giù venìa. Piantossi delle navi al cospetto: indi uno strale liberò dalla corda, ed un ronzìo terribile mandò l’arco d’argento. Prima i giumenti e i presti veltri assalse, poi le schiere a ferir prese, vibrando le mortifere punte; onde per tutto degli esanimi corpi ardean le pire. Nove giorni volâr pel campo acheo le divine quadrella.”
Mentre Apollo scende dalle cime di Olimpo a grandi passi, fosco come la notte, con l’arco e la faretra sulle spalle, le frecce urtandosi emettono uno spaventoso tintinnio. Giunto, il Dio si pianta davanti alle navi, e comincia a scoccare le frecce con l’arco d’argento, che sibilano terribilmente nell’aere. Con le mortifere punte abbatte i giumenti, i veltri, le schiere dei soldati, facendo strage. I loro corpi bruciano sulle pire funebri.
L’atto violento assume la forma dinamica del corpo scultoreo del Dio che scende “a gran passi”, dalla sommità dell’Olimpo, mosso da “gran disdegno”, che infine coordina infallibile la sequenza dei gesti che seminano la morte.
Qui opera il fascino perverso della forza e dell’energia, demiurgiche e prevaricatrici, che riducono la bellezza a un’ancella al loro servizio. Ad essere bello è perfino l’atto stesso della distruzione, che è il potere sommo di annientare gli enti inanimati ed animati, e quindi anche di preservare e potenziare la vita del distruttore a spese di quello che lo circonda e lo minaccia, o di creare un ordine alternativi sulle ceneri di quello annientato.
La tentazione del male è tale da riuscire ad ammantarsi di bellezza, per il semplice fatto che il male è un principio ontologico sempre all’opera negli eventi, che gli uomini utilizzano per il loro tornaconto. La guerra è infatti energia distruttrice all’opera, che emula le forze distruttive della natura.
In realtà il fascino delle potenze naturali che sovrastano l’uomo, prende il nome di sublime, ma comprende altresì le potenze artificiali che l’uomo crea e controlla a scopo di dominio e distruzione.
Il paradosso della connessione dell’estetica alla violenza è data dal fatto che la violenza, anche naturale ma soprattutto umana, è distruzione della forma ordinata ed armonica, in cui la bellezza ed il bene consistono. Si tratta quindi di un’anti – estetica, come nel caso del Manifesto del futurismo:
“La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.”
Oppure, ancora:
“Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali. Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo.”
Si tratta di un’(anti -) estetica, che esalta le forze demiurgiche del cosmo nella loro ambivalenza di costruzione e distruzione, di cui l’uomo ambisce a farsi padrone in virtù del progresso della tecnica. Distruggere per ricostruire, come nelle rivoluzioni e nei profondi sussulti della civiltà, ma anche distruggere per distruggere, senza uno scopo. Ci troviamo così agli antipodi dell’estetica della forma e dell’armonia.
Ecco perché un’estetica del disastro non è un assurdo. Infatti, si è parlato dell’abbattimento delle Torri Gemelle come di un capolavoro di questa estetica del negativo.
Com’è noto il musicista tedesco Karlheinz Stockhausen, all’indomani dell’attentato al World Trade Center, ha scritto, con grande scandalo di molti, che si è trattato della più grande opera d’arte mai realizzata. Virilio parla del crollo delle Torri in termini analoghi, come di un gesto espressionistico che mette i terroristi sullo stesso piano degli artisti e di tutti gli attivisti contemporanei dell’epoca della globalizzazione planetaria.
Con l’estetica del disastro la bellezza subisce un capovolgimento totale: da criterio di conformità a un ideale di ordine che si realizza nella realtà (ideale insieme etico ed estetico), ad una inumana ed antiumana esaltazione del caos, e delle forze distruttrici (che l’uomo ora padroneggia), che si annidano nell’essere, che perversamente affascinano l’uomo.
Gaetano Riggio
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