41° TFF – TORINO FILM FESTIVAL di Daniela Rullo

41° TFF - TORINO FILM FESTIVAL di Daniela Rullo

LA STELLA DELLA MOLE SOPRA IL CIELO DI TORINO SI CHIAMA OLIVER STONE

Al 41 TFF, Torino Film Festival, attesissima Kermesse svoltasi dal 24 novembre scorso fino al 2 dicembre, sul cartellone troneggiava un’indiscussa grafica che ha omaggiato il mito del cinema western, un iconico volto, di cui Jean-Luc Godard ebbe a dire: “Come posso io odiare John Wayne e poi amarlo teneramente quando prende improvvisamente in braccio Natalie Wood negli ultimi minuti di Sentieri Selvaggi?”. Fortemente voluto da Steve Della Casa, in quella che è stata la sua ultima e definitiva edizione come direttore, (che l’anno prossimo vedrà la figura del regista Giulio Base prendere il suo posto), stavolta John Wayne ha messo d’accordo sin da subito tutti i creativi, ed è il motivo per cui il volto più caratteristico del cinema western, di un cinema che fu l’ultima forma di epica collettiva che l’umanità abbia vissuto, ha aperto questa 41esima edizione di uno dei festival del cinema più ricchi ed interessanti dell’attuale panorama italiano riguardante il settore. Film come “Sentieri Selvaggi”, primo grande western del 1930, “Il Fiume Rosso”, “I Cavalieri del Nord Ovest”, in cui la voce finale fuori campo dice: “… Ed eccoli qua, uomini dalla logora giubba azzurra, che difendevano le frontiere della nazione… Soltanto una laconica pagina nel libro di storia registra le loro imprese ma dovunque hanno cavalcato, dovunque hanno combattuto, quel luogo è diventato terra degli Stati Uniti”.

Facendo un’analogia con l’epica di cui sopra, si può dire come la nascita dell’impero americano sta al western come la cultura greca stava all’Iliade, così come quando i greci colonizzatori esaltavano le loro vittorie inventandosi figure eroiche quali Ettore, Achille, il cavallo… non molto diversamente i colonizzatori (bianchi), che altro non erano che dei selvaggi, violenti e cattivi, che distrussero in ordine d’importanza i nativi e i bufali, si sono poi ripuliti inventandosi costumi immacolati, acrobazie a cavallo e pistoleri infallibili. Altri western “d’annata” si sono alternati nelle sale per tutta la settimana, come “Hondo”, “Pugni, Pupe e Pepite” e “I tre della Croce del Sud”, fino al crepuscolare e straordinario “Il Pistolero”, del 1976, dove Wayne mette in scena la sua morte, quella di un vecchio pistolero malato di cancro, il tramonto d’una leggenda, proprio mentre l’attore lo era davvero nella vita reale, il cui fascino viene riconosciuto persino dall’austera Lauren Bacall che gli riconosce una certa coerenza e un’onestà morale, innamorandosi alla fine di lui e della sua storia, forse, come noi del suo cinema. Quel cinema che va certo omaggiato, con un grande atto d’amore e di fede, come quello che ha Torino per il suo festival, senza dimenticare che pur apprezzando il mito non si tralasci però la storia.

Foto di Daniela Rullo

Ed è proprio in linea con questo stesso spirito che, nella sua ultima giornata ufficiale, la sua stella più luminosa, è stata quella donata al regista Oliver Stone, che prende il nome da quella che sta sulla punta della Mole Antonelliana, l’omonimo PREMIO STELLA DELLA MOLE, consegnato al regista con la seguente motivazione: “Sceneggiatore, produttore e regista, Oliver Stone ha offerto con il suo cinema schietto e diretto uno sguardo problematico della storia contemporanea del suo Paese, ma anche delle aspettative deluse della sua generazione. Tre volte premio Oscar, attento narratore di fatti storici, appassionato sostenitore delle cause in cui crede, Oliver Stone è al tempo stesso un personaggio scomodo e iconico della nuova Hollywood”. Il primo Oscar arriva nel 1978 per la sceneggiatura di “Fuga di Mezzanotte”, ma raggiunge la notorietà internazionale con “Platoon”, grazie al quale vince l’Oscar per il miglior film e la regia. Nella sua lunga carriera non ha avuto paura di affrontare temi scottanti come la guerra in Vietnam, l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, gli anni della presidenza Nixon, l’11 Settembre. Ha intervistato il leader cubano Fidel Castro e ha dedicato un film a Edward Snowden per le sue rivelazioni sulla NSA. Grazie alla collaborazione fra Film Commission Torino Piemonte, Torino Film Festival, Museo Nazionale del Cinema, Newcleo e I Wonder Pictures è stato possibile anche realizzare una Masterclass al mattino, al Media Center della Cavallerizza Reale, apprezzatissima e molto seguita. A consegnare il Premio, quindi, con grande orgoglio, sono stati Enzo Ghigo e Domenico De Gaetano, rispettivamente presidente e direttore del Museo Nazionale del Cinema, di grande prestigio per la città di Torino, “gioiello” contenuto nella Mole stessa, la quale attualmente ospita anche la mostra permanente, “Il mondo di Tim Burton”, un mondo delle meraviglie di questo visionario regista che annovera tra i suoi capolavori d’animazione “The Nightmare Before Christmas” ma anche lungometraggi quali “Edward Mani di Forbice”, “La fabbrica di cioccolato”, o ancora, la serie Netflix “Mercoledì”. Un gioiello nel gioiello che arricchisce le stelle che brillano nel firmamento delle notti della Torino da guardare… al Cinema, nel Cinema, dall’alto del Museo del Cinema, che con tanto di ascensore in vetro ci porta in alto e sulla parapetto alla base della guglia della Mole ci fa scorgere lontano, abbracciando tutt’intorno Torino, scambiandoci promesse e desideri di tornare il prossimo anno, dal 22 al 30 novembre 2024, con ancora più sogni da realizzare, progetti ambiziosi, folgoranti e altre “stelle” da ricercare, ad illuminare altri volti, altri occhi ammirati di ragazzi sognanti, di cinefili appassionati, di tutto un sistema cinema che viaggia tra vecchio e nuovo, tra antico e moderno, tra retrospettive e nuove masterclass. Quest’anno, la giornata più importante si è conclusa con “Questo Premio”, dice Enzo Ghigo, “dato durante il TFF, il quale si unisce agli altri attribuiti in occasione delle Masterclass che il Museo Nazionale del Cinema ha organizzato nel 2023, iniziate con Kevin Spacey e continuate con autori importanti come Asghar Farhadi, Pablo Larrain, Tim Burton e Damien Chazelle”. A seguire c’è stata la proiezione di “Nuclear Now”, dello stesso regista: “E se la risposta al cambiamento climatico fosse il ritorno al nucleare?” Provocatorio come sempre Oliver Stone prova a immaginare il futuro. Il film documentario verrà distribuito in Italia da I Wonder Pictures, presto su LA7. Scritto con il professor Joshua S. Goldstein, a partire dal libro di quest’ultimo, “A Bright Future”, nell’anno del film fenomeno “Oppenheimer”, Stone è ancora una volta una voce fuori dal coro, convinta che “la campagna anti-nucleare sia stata scatenata e finanziata dagli interessi petroliferi, creando confusione (e paura) tra armi nucleari ed energia nucleare. Le energie rinnovabili per ora funzionano… ma di quanta elettricità avrà bisogno il mondo nel 2050, con India, Cina, Africa e Asia pienamente industrializzate?”. Critiche e polemiche sono annunciate, in perfetto stile Stone, che non si smentisce. Le luci si sono spente e il sipario si è ufficialmente chiuso, con il commosso commiato del direttore artistico Steve della Casa che alla fine della cerimonia di premiazione (a proposito, c’è ancora oggi, tutto il 3 dicembre per rivedere nelle sale del Cinema Massimo, di via Verdi, i film vincitori in concorso… e poi davvero… si spengano le luci in sala e a rivederci al prossimo anno e alla 42esima edizione!), ha ringraziato tutti i suoi collaboratori per averlo accompagnato in questo viaggio, ricordando che “i festival devono essere strabici, cioè devono guardare al passato e al futuro contemporaneamente”.

Foto di Daniela Rullo dalla Mostra “The World of Tim Burton”
Franco Citti, Roberto Benigni e Sergio Citti sul set del film “Il minestrone”, tratto dal volume realizzato appositamente per la retrospettiva di Citti del 41TFF, dal titolo, SERGIO CITTI, La poesia scellerata del cinema, a cura di Matteo Pollone e Caterina Taricano

E oltre all’omaggio a John Wayne, alle pellicole restaurate, grande successo nelle sale lo ha registrato l’esaustiva, quantomeno la prima ed unica, finora, retrospettiva completa su Sergio Citti, regista non sufficientemente studiato ed apprezzato, a mio parere, colui che potrebbe essere considerato il contraltare meno luminoso e patinato di Fellini, con personaggi altrettanto surreali quali suoi attori iconici ricorrenti, come il fratello Franco Citti e Ninetto Davoli, con tematiche esistenziali profonde e filosofiche, nonché di senso pratico e necessità primarie come la fame e il sesso, cui può seguire una condizione di morte che va accettata, o anche i bisogni corporali, (ciò che si riempie si deve anche svuotare ma se è vuoto, di cibo, non si può che riempire di sola acqua, o vino, quasi a colmare un vuoto assoluto, il vuoto della povertà). Vi è un senso della morale e della “giustizia di strada” che ricorda quella alla John Wayne, quando questi, ne Il Pistolero, spiega ad un giovanissimo Ron Howard che non sopporta ingiustizie e non sopporta prepotenze, e che prima o poi, se qualcuno lo tradirà, la “regola” è che si aspetti da lui vendetta, poiché interverrà. Così come quando in Ostia i due fratelli, chiamati a confessarsi in carcere, per la Santa Pasqua, sostengono di non aver compiuto grandi peccati, poiché è più ladro colui che istiga a rubare affamando, riducendo alla condizione di povertà, che il ladro stesso che ruba per necessità, per bisogno reale. Su Citti, in particolare su un suo corto, si è tenuto un convegno, con recupero di materiali censurati. Indimenticabili film proiettati sono stati: “Il Minestrone”, un capolavoro assoluto in tre episodi, in cui la fame è protagonista, qui nella sua versione integrale, e “La Ricotta”, il cortometraggio con Orson Welles, di circa 30 minuti, nella versione restaurata e non censurata, con la famosa battuta “Povero Stracci, crepare è stato il solo modo di fare la rivoluzione”, il cui filo conduttore è sempre la fame, qui estremizzata. O ancora film come “Mortacci”, poetico nella suo essere tragico e comico insieme, ambientato in un cimitero, altro tema cardine per il regista, oltre alla fame quello della morte; “Casotto”, tutto quello che può accadere in una cabina di uno stabilimento balneare, quasi come se fosse la cabina stessa ad essere punto d’osservazione e protagonista, il film più noto di Citti; “Due pezzi di pane”, “Storie scellerate”, “Sogni e Bisogni”; “Ostia”, film d’esordio di Citti, scritto con Pasolini, erroneamente attribuito a quest’ultimo; “I Magi randagi”, vagamente ispirato ad un progetto incompiuto di Pasolini, storia di tre saltimbanchi, moderni re magi, alla ricerca del nuovo Messia; “Fratella e Sorello”; il documentario, di 24 minuti realizzato pochi giorni dopo la morte di P.P. Pasolini, in cui si ripercorrono ipoteticamente gli ultimi momenti della vita del poeta, “Pier Paolo Pasolini. 14.11.1975”. Oltre ad essere amici fraterni e coautori in diversi film, il documentario, realizzato da Citti, pochissimi giorni dopo l’omicidio Pasolini, è una ricostruzione fedelissima del percorso delle auto avvenuto quella sera. Sono stati filmati alcuni resti di bastoni rotti, tracce di sangue, la rete metallica ammaccata in cui presumibilmente il corpo di Pasolini si è “appoggiato” per le botte che gli sono state date. Questi 24 minuti di video, senza audio, del delitto Pasolini, come ci dice David Griego, presente in sala, sono lunghi e anche “difficili”, in un certo senso, ma ce li vuol “spiegare”, in alcuni passaggi, e ringrazia ed è contento che il pubblico lo veda, ricordando come, pur costituendosi personalmente come parte civile e richiedendo la riapertura del caso alla Procura di Roma, la stessa, per l’ennesima volta, abbia bocciato la richiesta. La volontà di Citti di giungere alla verità sulla morte dell’amico non l’ha mai abbandonato, fino alla fine dei suoi giorni… e chissà che anche questa storia, di cinema e di vita vera non venga presto disvelata, magari da qualche altro regista che magari è sopravvissuto nel frattempo a coloro che ricordiamo omaggiandoli.

Dal tocco più leggero, in punta di disegni colorati, un po’ malinconico per come comincia la storia ma con un bel messaggio e un lieto fine, sempre con un filo conduttore in tutto questo scritto che è il cibo (o la fame), con una collaborazione italo-francese, il lungometraggio che debuttava in concorso sabato 25 novembre scorso, dal titolo “Linda e il pollo”, di Chiara Malta e Sébastian Laudenbach, ha vinto il Premio Miglior Sceneggiatura. Linda che vuole a tutti i costi il suo pollo e lo avrà, nonostante lo sciopero generale, nonostante le peripezie che dovrà affrontare la madre, nonostante le periferie delle città siano un po’ anonime, quasi come delle città dormitorio, nonostante l’anima anarchica di questo pollo e di Linda che si ribellano a tutti i costi. Chi può, per come può, la madre di Linda e a seguire tutti i personaggi intorno, corrono, scappano, sfuggono, finché il pollo, suo malgrado, non soccombe, per amore di Linda (nel ricordo del suo papà) e non viene servito, nella condivisione generale, perché “dove si mangia insieme non si è mai soli”, citando non a caso l’ultimo film visto di Kean Loach, oltre a quelli della rassegna, probabilmente il suo “testamento cinematografico”, a 86 anni, e laddove nella scena del Minestrone il pranzo è solo una finzione, “perché la fame non si vede, si sente, ed è come un’altalena che va e viene, quando mangi va via, ma quando poi fai la cacca (come candidamente dicono i bambini) ti ritorna, oppure la fame può essere una malattia che viene e non se ne va più, o è come un documento, come una carta d’identità”, (i personaggi disquisiscono filosoficamente intorno all’argomento, a stomaco vuoto, cercando di far passare il tempo), seppur il pranzo sia magistralmente simulato, qui è reale, i piatti sono fumanti, il profumo è delizioso, il sapore è squisito… Tutto il quartiere condivide la famosa ricetta del pollo con i peperoni del papà di Linda e lei è felice… in un mondo di bolle e di ricordi dove finalmente il papà rivive in una pietanza, come le madeleine di proustiana memoria, tutto è in festa, non è più grigio ma ci sono i colori adesso, è tutto più “vivo”. Ebbene, in questo sogno che si desta non resta che guardare verso la Mole… la serie di Fibonacci si spegne, la stella a cinque punte è in cima ed ha sostituito ormai tanto tempo fa il Genio Alato, la cui statua veglia all’interno del Museo del Cinema e tutti la scambiamo per un angelo. Non ci resta che salutarci… Ciao Torino, è stato un festival bellissimo. Ci rivediamo l’anno prossimo… nel 2024!

“Come posso io odiare John Wayne e poi amarlo teneramente quando prende improvvisamente in braccio Natalie Wood negli ultimi minuti di Sentieri Selvaggi?” (Jean-Luc Godard)

“Every great idea is on the verge of being stupid” (Michel Gondry)

Daniela Rullo

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Daniela Rullo

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Carletto Romeo